Aumentano i casi di Covid-19 e mai come questa volta i numeri sono sottostimati. Chi risulta positivo deve isolarsi per sette (se vaccinato) o dieci giorni (se non ha completato il ciclo vaccinale). Indipendentemente dal loro stato di salute, le persone rispondono agli incentivi e, in questo caso, il disincentivo è chiarissimo: se fai un test in farmacia o in una struttura ambulatoriale od ospedaliera, e risulti positivo, ti consegni all’isolamento prima e alla burocrazia poi. Comprensibilmente, prevale la scelta di farsi un’autodiagnosi e poi gestire in autonomia la propria condizione, proteggendo i propri contatti, incluse le situazioni, frequenti, in cui la quasi mancanza di sintomi non limita la capacità di svolgere qualche attività in un contesto sociale.
Come già in passato, la diffusione di test di autodiagnosi (uguali in tutto e per tutto a quelli somministrati in farmacia) fa scattare il riflesso condizionato degli esperti. È stato chiesto di vietarne la vendita, con argomenti che sono un insulto all’intelligenza delle persone e denunciano un’inclinazione verso il totalitarismo sanitario.
Ciononostante questa ondata di Covid-19 (quale sia, abbiamo perso il conto, e avrebbe forse più senso usare, al posto delle onde, la metafora di un incendio che persiste sottotraccia e si riaccende con ricorrenze non regolari) è per ora caratterizzata da bassa mortalità e gli ospedali rimangono sotto controllo. Se si confrontano i numeri di nuovi casi e decessi nei giorni e settimane da gennaio a oggi, si vede che non c’è una relazione diretta e costante tra il numero di casi e i decessi, e considerando che il numero di positivi oggi è largamente sottostimato, questo significa che la mortalità è cambiata perché il virus e i suoi ospiti sono biologicamente diversi rispetto a sei mesi fa e ancor di più rispetto a un anno e mezzo o più fa.
Il catastrofismo è una merce che si vende bene e il mantra che circola è che coi numeri saliranno anche le ospedalizzazioni e i ricoveri in terapia intensiva. Può darsi, ma la domanda è di quanto e per quanto. Non troppo diversamente, non c’è un esperto televisivamente riconosciuto come tale che non preveda che con l’autunno ci sarà un’altra ripresa dell’incendio da Covid-19. Può darsi, ma dipende dalle condizioni in cui ci troveremo.
Si tratta di ragionamenti di senso comune, quasi tautologici, ma solo apparentemente veri. Il virus in circolazione, la variante dominante, è diversa da quella con cui ci siamo confrontati la prima volta nel febbraio 2020, e anche da quelle che hanno spazzato l’Italia dal novembre 2020 all’aprile 2021 e nell’inverno scorso. Il virus evolve naturalmente e quindi sono prevedibili nuove varianti. Simmetricamente, diverse sono le caratteristiche della popolazione che incontra: che ha una memoria immunitaria abbastanza diffusa anche se fluttuante sul piano individuale, in quanto è vaccinata in modo completo per oltre l’80% e con almeno una dose per l’85%. Una parte si è anche vaccinata una o più volte contraendo naturalmente l’infezione. In quanto popolazioni biologiche umane, abbiamo stabilito col virus e la malattia nelle sue diverse forme delle interazioni storiche che cambiano lo scenario fenomenologico che ci dobbiamo aspettare.
Tant’è che, a non andare per il sottile, le stesse sfumature del catastrofismo sono diverse oggi che in passato: mentre il catastrofista continua ad auspicare restrizioni crescenti, oggi lo fa in nome della protezione dei fragili e non più della speranza di eradicare il virus. Al momento non esiste una strategia sanitaria per portare gli anziani ai vaccini né per portare i vaccini agli anziani. La calura estiva, la stanchezza psicologica e il crollo della fiducia in larga parte della popolazione anziana verso la sanità pubblica rendono difficile, in assenza di figure come il generale Figliuolo, il successo della raccomandazione. Peraltro, dato che è in arrivo un nuovo vaccino che si sta dimostrando efficace, negli studi in corso, contro le varianti Omicron in molti probabilmente preferiranno aspettare.
La lezione di questi giorni a noi pare questa: le epidemie, in particolare quelle dove la trasmissione avviene per via aerea o per contatto, si debbono affrontare facendo conto anche e soprattutto sulla responsabilità individuale. Possono essere usate e sono state usate per ridurre il perimetro della libertà individuale: ma questo è un riflesso ideologico, non una prescrizione di sanità pubblica.
È importante che i test per autodiagnosi siano venduti in grande quantità: vuol dire che sono le persone che, alla comparsa di qualche sintomo o in corrispondenza del contatto con una persona risultata positiva, scelgono di testarsi. E sono presumibilmente le stesse persone che, se positive, prendono quelle misure di cautela necessarie per tutelare i loro cari. Vorremmo fosse chiaro: questo era l’obiettivo, miseramente fallito, dei complicatissimi piani basati su sistemi di test & tracing che sono stati immaginati dall’inizio della pandemia in avanti. Oggi ci pensano le persone, da sole. Lo fanno sulla base della loro sintomatologia e non del loro status vaccinale: sono, cioè, più efficienti ed etiche del Green Pass!
Agli occhi dell’esperto, ovviamente questo è il peggiore dei mondi possibili. È anarchia, egli dice, una salute pubblica lasciata al buon senso degli individui. In realtà, molto semplicemente, a due anni dalla sua comparsa Sars-Cov-2 è diventato un virus come tutti gli altri, col quale ci comportiamo esattamente come con tutti gli altri. C’è chi per l’influenza passa una settimana a letto e chi prende due pastiglie e va al lavoro. I comportamenti sono diversi perché diversi siamo noi: la nostra condizione fisica, la nostra sensibilità o immunità a questo o a quel patogeno, i nostri valori, etc.
Test autosomministrati e autosorveglianza: non è che forse siamo tornati alla normalità? Non è uno scenario da scongiurare. Soprattutto perché adesso non abbiamo solo i vaccini, ma anche un farmaco, Paxlovid, approvato dalle autorità di regolazione, che se preso con i primi sintomi evita gli scenari peggiori. Purtroppo, la burocrazia di Aifa impedisce che il farmaco sia prescritto e usato in modi efficaci ed efficienti, ragion per cui pur avendone acquistate 600mila dosi, ne è stato usato solo il 3%. Un ulteriore esempio che i problemi non nascono dai comportamenti delle persone, ma dall’ossessione burocratica del controllo esercitato su misure e scelte che possono funzionare solo trovando spontaneamente una loro regolazione.
Il ritorno sui giornali di virologi ed epidemiologi prelude a una campagna d’autunno per la quarta dose. Che auspichiamo diversa dalle precedenti: per una questione infrastrutturale e soprattutto perché sarà difficile convincere di nuovo tutta la popolazione a sottoporsi al vaccino. Purtroppo, e malgrado il vaccino abbia salvato vite e rimesso in moto la convivenza civile, lo scetticismo verso i vaccini è aumentato. E a questo dobbiamo ringraziare il disgraziato presenzialismo, la litigiosità e il narcisismo patologico degli esperti che sono andati in scena sui media. Adesso abbiamo un farmaco, l’abitudine dei singoli a verificare, autonomamente, il proprio stato di salute, una memoria immunitaria a medio termine. I vaccini dovrebbero far parte di una strategia di cauto contrasto, non diventare l’occasione per una nuova crociata. Dalla quale purtroppo di nuovo non uscirebbe bene una scienza trasformata in caricatura liberticida, dai suoi stessi pretesi difensori.