Al Capo dello Stato Sergio Mattarella, il presidente del Consiglio Mario Draghi ieri, nella sua salita al Colle, di fatto ha anticipato cosa dirà oggi ai leader di Cgil, Cisl e Uil. Un appuntamento che – come spiega La Stampa – il premier considera cruciale anche nella strategia di allentamento della tensione con il Movimento Cinque Stelle.
Gran parte dei nove punti del documento consegnato da Giuseppe Conte nell’incontro della scorsa settimana saranno affrontati oggi a Palazzo Chigi con i sindacati. E Draghi è pronto ad aperture su reddito di cittadinanza, salario minimo, cuneo fiscale, rinnovi contrattuali. Le proposte facevano già parte dell’agenda, ma se servono anche a placare Conte, e ancora di più i suoi parlamentari convinti che non ci sia alternativa allo strappo, tanto meglio sfruttare la tempistica dell’occasione offerta dal confronto con i sindacati.
Ma niente scostamento di bilancio, cosa che vorrebbe Conte. I soldi che il governo è pronto a mettere a disposizione nel prossimo decreto però saranno tanti, anche ben oltre i 10-12 miliardi di cui si era parlato. Grazie alla lotta all’evasione e all’aumento considerevole di incassi da Iva dovuto all’inflazione.
I sussidi statali bastano più, la benzina costa ormai ovunque due euro al litro. E poiché nel frattempo ci sarà l’inevitabile aumento dei tassi di interesse da parte della Banca centrale europea, per Draghi c’è l’urgenza di intervenire prima di trovarsi le piazze piene della protesta in autunno.
Il prossimo decreto, che dovrebbe essere approvato entro luglio, sarà di fatto una anticipazione della legge di bilancio, che entrerebbe in vigore solo all’inizio del 2023, quando gli effetti della crisi si saranno scaricati sulle famiglie e i partiti già tutti in campagna elettorale.
La riduzione del cosiddetto cuneo fiscale arriva da ogni parte, sindacati e Confindustria, ma anche dai partiti. Bisognerà capire come agire. L’anno scorso il governo ha privilegiato la riduzione dell’Irpef per 7 miliardi, ma si è trattato di un intervento che non ha avuto effetti significativi. Gli industriali hanno chiesto a Palazzo Chigi una riduzione dei contributi previdenziali da 16 miliardi di euro, ma si tratta di una cifra impensabile con gli attuali vincoli di bilancio. Una delle ipotesi che stanno valutando i tecnici è un taglio in due tempi: uno entro la fine di luglio, un secondo nella prossima finanziaria. Molto dipenderà dall’andamento del gettito fiscale, dai margini aggiuntivi di deficit che la Commissione europea potrebbe garantire al governo e dalla disponibilità dei partiti a concentrare le risorse su pochi obiettivi.
Sul salario minimo, invece, si punta al compromesso. Da parte di Draghi non c’è nessuna pregiudiziale ideologica. Il Pd ne fa una bandiera e in Parlamento si discute da anni di una legge. La verità è che sindacati e Confindustria non hanno mai spinto né spingeranno perché venga introdotto con le modalità previste nella gran parte dei Paesi europei. E la ragione è nella forza tutta italiana della contrattazione collettiva nazionale, che però non ha impedito l’esplosione dei contratti pirata e del dumping salariale.
Poiché nessuno crede che il Parlamento riuscirà a varare in via definitiva una legge, Palazzo Chigi sta lavorando a una via di mezzo proposta dal ministro Andrea Orlando: un rafforzamento delle garanzie contrattuali esistenti nei contratti collettivi, accompagnato da norme che evitino il più possibile i cosiddetti contratti pirata.
Poi c’è il nodo dei rinnovi contrattuali, soprattutto nei servizi. I sindacati chiedono il ricalcolo dell’inflazione, ma nel pieno di una tempesta inflazionistica e di un rallentamento dell’economia è difficile ottenerlo. A Palazzo Chigi non intendono in ogni caso alimentare tensioni fra datori di lavoro e sindacati. Ma più ampio sarà il taglio dei costi che pesano sulle buste paga, maggiori saranno le chance affinché sindacati e imprese firmino anche i rinnovi.
Infine, le pensioni. Draghi proverà a rimandare la discussione, ma la fine di quota 102 è dietro l’angolo. Poi si tornerà alla Fornero. Il premier sa che a Bruxelles il tema previdenza è valutato con molta attenzione. Per mettere d’accordo tutti ed evitare la censura dell’Europa a Palazzo Chigi e al Tesoro hanno in mente il rafforzamento della flessibilità in uscita attorno a 63-64 anni, a patto che i costi vengano sostenuti da chi intende anticipare l’uscita dal lavoro. Un’ipotesi lontana anni luce dalle richieste dei sindacati e dalla maggioranza, in particolare Cinque Stelle e Lega.
I segnali che usciranno dall’incontro con i sindacati saranno fondamentali in vista della giornata decisiva in Senato di giovedì. Quando non sarà possibile il doppio binario previsto alla Camera, dove il Movimento ha votato la fiducia al governo ma ieri, al momento di esprimersi sul decreto aiuti che contiene il contestatissimo inceneritore di Roma, ha lasciato l’emiciclo. In Senato il voto è unico e, di fatto, uscendo dall’Aula i Cinque Stelle non voteranno la fiducia al governo. A quel punto andranno gestite le conseguenze. In teoria, i numeri della maggioranza, grazie alla scialuppa degli scissionisti di Luigi Di Maio, ci sarebbero pure. Ma si porrebbe un problema politico enorme.
Ma se Conte non farà alcuna mossa per andare incontro a Draghi allora scatterà lo scenario B, quella della verifica di governo richiesta da Berlusconi.