Il 19 luglio del 1992, il giorno in cui fu assassinato Paolo Borsellino insieme agli agenti della sua scorta, nell’anno dell’assalto terrorista di Cosa Nostra, è diventata una data indimenticabile e tragica. A marzo viene assassinato Salvo Lima, l’uomo di Cosa Nostra dentro le istituzioni, il proconsole di Giulio Andreotti in Sicilia, ucciso per non aver mantenuto la promessa di aggiustamento del maxiprocesso istruito dal pool antimafia di Palermo che aveva seppellito i boss sotto una montagna di ergastoli; a maggio la strage di Capaci.
«Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur», aveva denunciato dieci anni prima il cardinale Salvatore Pappalardo, ai funerali del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e della moglie Emanuela Setti Carraro, citando la famosa locuzione di Tito Livio. Dieci anni dopo, risuonò come una biblica condanna contro i mafiosi l’invettiva straziante di Rosaria Schifani, vedova di uno degli agenti della scorta di Falcone: «Io vi perdono ma voi vi dovete mettere in ginocchio». Costretto a reagire dopo anni di codarda inerzia, di complicità, di sottovalutazione, lo Stato mise infine in campo una durissima reazione che sgominò i sanguinari corleonesi.
Il racconto di quel che allora vidi da cronista l’ho raccontato nell’ultimo numero di Linkiesta Magazine. Oggi voglio ricordare quella data attraverso una delle tante persone la cui vita cambiò in quei giorni: «Era il 17 luglio 1992. Non erano ancora passati due mesi dalla strage di Capaci e a Milano, cinque mesi prima, il 17 febbraio, l’arresto di Mario Chiesa aveva fatto franare il sistema politico italiano. In quel momento fare il magistrato non era una scelta come le altre, soprattutto per un ragazzo siciliano. Per anni attorno a noi si era combattuta una guerra. Non c’era ragazzo siciliano che non avesse sfiorato da vicino il rosario dei morti che aveva devastato la nostra isola», così racconta il giorno in cui diventò magistrato Roberto Di Bella, già presidente del Tribunale dei Minori di Reggio Calabria, attualmente presidente di quello di Catania, nel libro scritto con Monica Zappelli “Liberi di scegliere” (Rizzoli), alla cui storia si ispira anche l’omonima fiction Rai interpretata da Alessandro Preziosi.
Messinese, 59 anni, aspetto mite e fisico minuto da judoka, sposato con un figlio, Di Bella è impegnato in una sfida che sembrava impossibile, sottrarre al destino mafioso decine di ragazzi e ragazzi. Mi racconta: «Ho fatto tutta la mia carriera lavorativa al tribunale dei minori di Reggio Calabria che scelsi come sede quel 17 luglio del 1992. Sono arrivato nel 1993 e, dopo una parentesi fuori, sono tornato nel 2011 come presidente e mi sono trovato a dover giudicare i figli o fratelli minori di quelli che avevo giudicato negli anni ’90. Ma non era solo una mia sconfitta personale: era anche la sconfitta della giustizia e dello Stato che sembravano non poter cambiare un destino ineluttabile Ci domandavamo perché il tribunale intervenisse su genitori tossicodipendenti che non assicuravano il benessere dei minori allontanandoli provvisoriamente dall’ambiente familiare e non potessimo farlo per famiglie che inculcavano una vera e propria educazione criminale, esponendo i figli a una condizione di sofferenza. Voglio essere chiaro: nessuna pulizia etnica, né interventi preventivi: se il genitore mafioso tiene lontani i figli da quell’ambiente noi non interveniamo. Né vogliamo imporre ideologie, solo educare al rispetto delle leggi, al rispetto dell’altro. Non ho mai detto a nessuno di rinnegare il padre e la madre, ma di rinnegare la cultura criminale. Certo, all’inizio è stata dura, quando scrivevano che non esistono deportazioni a fin di bene, quando ci accostavano alle magistrature di stati totalitari, accusandoci di voler inculcare in questi ragazzi un’ideologia di Stato. Abbiamo attraversato la bufera isolandoci e concentrandoci sui singoli casi, poi i risultati positivi ci hanno aiutato a far comprendere che la nostra azione era rivolta al bene del minore».
«Vuol sapere qual è la chiave di tutto? – mi spiega Di Bella – È la sofferenza. Non solo quella procurata al di fuori della famiglia, ma quella causata ai figli, alle mogli, alle madri, a sé stessi. È il dolore di bambine e bambini cresciuti in notti insonni popolate da incubi in attesa di un’irruzione delle forze dell’ordine; condannati al Natale trascorso in un covo nascosto nel cuore della montagna; allevati, come dice un padre al figlio, per diventare Vangelo della ‘ndrangheta al posto suo; che devono imparare, anche questo l’ho sentito in un’intercettazione, a tagghiari ‘a purviri, cioè la droga; educati all’uso delle armi. Ci sono ragazzi che sputano in terra al passaggio di una volante, altri che si fanno tatuare sotto la pianta del piede la fiamma dei carabinieri, in modo da poterla calpestare costantemente. È capendo che dietro questi comportamenti spavaldi si cela spesso una sofferenza che abbiamo fatto breccia nel muro della ‘ndrangheta e salvato decine e decine di ragazzi, allontanandoli dalle famiglie mafiose e mostrando loro che c’è un altro destino possibile, che possono essere liberi di scegliere».
Le prime a recepire questo messaggio sono state le madri. Ecco il racconto che una di queste, devastata da un pianto irrefrenabile, fa davanti al giudice: «Sono la madre di R. di 15 anni…. Mio figlio pensa che andare in carcere sia un onore e pensa che può dargli rispetto, ma in realtà non sa cosa è il carcere e quello che potrebbe accadergli li dentro. La prego, mandi i miei figli lontano da Reggio Calabria». Questa esperienza che finora ha riguardato 100 minori e 25 nuclei familiari è affidata a un protocollo d’intesa siglato con la Cei, Libera, la Direzione nazionale antimafia e ben cinque ministeri (Giustizia, Interno, Istruzione, Difesa, Pari Opportunità).
Per una vera e propria strategia di recupero secondo Di Bella serve che «quanto previsto nei protocolli che abbiamo stilato sia cristallizzato in una normativa nazionale, con risorse da destinare alla formazione degli operatori, all’assistenza alle famiglie, al problema del lavoro. I successi sarebbero più forti e duraturi se potessimo disporre di risorse per il reinserimento lavorativo dei ragazzi. Penso a una specie di Piano Marshall per i giovani che vogliono uscire dalla criminalità, e dobbiamo aiutare le donne che, pur senza voler diventare collaboratrici di giustizia, vogliono comunque allontanarsi e allontanare i figli dal sistema criminale».
Il protocollo scade il 31 luglio dell’anno prossimo e attualmente è finanziato solo dalla Conferenza episcopale italiana. La sottosegretaria al sud Dalia Nesci ha presentato una proposta di legge affinché il protocollo diventi una legge.
Anche a Catania ci sono molti minori utilizzati come carne da macello. E anche qui Di Bella immagina una sorta di Erasmus della legalità per i minori utilizzati dalla mafia: «Con la prefettura abbiamo creato un osservatorio sulla criminalità giovanile. Abbiamo già emesso oltre venti provvedimenti di allontanamento dalle famiglie, ma occorre intervenire con strumenti diversi anche sull’evasione scolastica che qui è altissima: se non vanno a scuola i ragazzi stanno per strada dove nei quartieri poveri e degradati sono facile preda della criminalità. Si sta aprendo una breccia psicologica e culturale importante».
Ecco cosa gli scrive un boss detenuto al 41 bis, parlando del figlio: «Quando viene a trovarmi in carcere mi considera un mito. Ma io non sono un mito, la mia vita è stata un fallimento, non voglio che mio figlio faccia la mia stessa vita, lo tenga lontano da quel maledetto quartiere».
Dice Di Bella: «Ho trovato spesso riflessioni intense e un grumo di umanità che non mi aspettavo di trovare. Noi possiamo giudicare i loro comportamenti dal punto di vista penale, ma cosa li spinga a tali scelte lo sa solo Dio».
Credo che questa idea di giustizia, attenta all’umanità delle persone, priva di ansie giustizialiste, sia molto vicina all’idea che ne aveva Paolo Borsellino, che aveva gestito con paterna attenzione e umanità la vicenda di Rita Atria, una giovane che aveva denunciato la famiglia mafiosa e che si uccise dopo la morte del giudice.