Chetelodicoafare MagLo studente cancellato e quelli che all’improvviso una mattina si svegliano

Il New York Magazine ha pubblicato la storia d’un diciassettenne cui i compagni di scuola non rivolgono più la parola perché gli ha fatto vedere una foto della sua ragazza, nuda. E si chiede come sia successo che la riprovazione sociale sia diventata un metodo punitivo diffuso. Forse non hanno mai letto gli ultimi cinque anni del giornale che mandano in edicola

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Abbiamo tutti un amico senza personalità. È quello che, dopo averci spiegato in lungo e in largo che la parete che abbiamo davanti è nera, quando gli diciamo no, guarda che è bianca, risponde: proprio quello che stavo dicendo io, vedi che siamo sempre in sintonia?

È con animo aggravato dal dispiacere che vengo a comunicarvi la deriva della stampa americana. Che negli ultimi anni ha pubblicato tanta di quella roba con cui non ero d’accordo, e anche di puttanate oggettive, che se fossi stata puritana come loro avrei disdetto molti abbonamenti e risparmiato qualche spiccetto. Tuttavia, mi trovo a rivalutare quei giorni.

Leggerli e incazzarmi, leggerli e chiedermi come potessero essere così ottusi, leggerli e trasecolare perché una nazione in cui gli intellettuali sono così grandemente inadeguati non può essere una nazione che comanda il mondo, meritiamo di meglio, ci era stato promesso di meglio, a noi cresciuti coi film di Woody Allen – ecco, tutto questo era meglio di quel che mi tocca adesso.

Adesso che ogni giorno li apro e c’è una contrizione che finge di non essere tale, c’è un articolo che contraddice tutte le posizioni ideologiche degli ultimi anni, ma lo fa con l’aria di chi non deve espiare niente, di chi mica deve ammettere d’aver sbagliato ogni analisi e ogni posizionamento, di chi mica deve dire scusate tanto, non ci abbiamo capito un cazzo, ma da mo; lo fa col tono di chi ti dice: io d’altra parte l’ho sempre detto, lo pensi anche tu?, lo vedi che siamo in sintonia?

Il New York Magazine mette in copertina la straziante storia d’un diciassettenne cui i compagni di scuola non rivolgono più la parola. Poffarbacco, egli viene forse discriminato perché appartenente a qualche categoria delle catalogazioni intersezionali di cui il NYMag s’è fatto gazzettino? Macché: l’hanno cancellato, l’hanno privato della presentabilità sociale, hanno deciso che sarebbe divenuto un invisibile. Una sera il ragazzo s’è ubriacato, e ha fatto vedere ad alcuni amici una foto che teneva sul telefono; una foto della ragazza con cui stava, nuda.

Da che mondo è mondo, adolescenti ambosessi (e spesso anche gente che non è più adolescente da un bel pezzo) si vantano delle loro conquiste, e spero saremo d’accordo che far vedere una foto a un amico non è come diffonderla sui social o metterla in commercio. Non è neanche, sempre per il discorso per cui se faccio una brutta battuta su di te l’umiliazione è mia e non tua, sputtanante per te: ma tu pensa, sotto i vestiti sei nuda, chi l’avrebbe mai detto, poffarbacco. Se fossimo sani di mente capiremmo che è più intimo che io faccia leggere schermate di messaggi alle mie amiche (ormai principale passatempo delle amicizie femminili) di quanto lo sia il tuo far vedere una mia foto nuda ai tuoi amici: i messaggi almeno possono essere sorprendenti (poi non lo sono mai, ma potenzialmente); ma sottopanni io che sorprese vuoi che abbia, tre tette?

Fatto sta che la moda delle conseguenze morali e sociali ha attecchito nei licei, e a scuola nessuno vuole più parlare col tapino, lo isolano, chi gli è rimasto amico deve frequentarlo di nascosto per non subire il contagio della riprovazione, insomma è un casino. Niente di particolarmente anormale – da che mondo è mondo, il liceo è il posto più crudele nella vita d’un essere umano – ma il NYMag trasecola. Com’è successo che la riprovazione sociale è diventata un metodo punitivo diffuso? Non so, avete letto gli ultimi cinque anni del giornale che mandate in edicola? Secondo me ci trovate degli indizi.

Domenica il New York Times ha pubblicato un editoriale in cui si dice che la destra e la sinistra convergono nell’insofferenza per le donne: a destra non vogliono farle abortire; a sinistra, non vogliono che si permettano di pretendere d’essere definite «donne» invece che «corpi che mestruano» e altre locuzioni assurde usate anche dalle riviste scientifiche perché se dici che la gravidanza è cosa delle femmine di mammifero stai escludendo e discriminando le gravidanze degli uomini trans (cioè: gente che usa l’utero per riprodursi come una donna, ma si fa crescere la barba come un uomo, però è importante non chiuderla in una stanza con le pareti imbottite giacché abbiamo visto che non serve a disilludere chi crede d’essere Napoleone).

Come in tutti i grandi giornali, non è affatto detto che un pezzo d’opinione rispecchi la linea editoriale del New York Times (ne hanno pubblicato persino uno mio, meno ortodossi di così non si può), ma l’articolo in questione ha due caratteristiche che lo rendono un caso interessante. La prima è che è scritto da una loro giornalista, non da qualcuno di cui ospitano l’opinione una volta e poi amici come prima. La seconda è il tono.

Il tono di Pamela Paul è quello di chi si è guardato intorno e ha scoperto un mondo assurdo in cui donne vengono licenziate per aver detto che la biologia esiste (ieri il tribunale inglese ha riconosciuto i danni per la subita discriminazione a Maya Forstater, la scienziata il cui licenziamento e la cui difesa da parte di JK Rowling avevano dato il via all’asilo nido dialettico in cui se dici che no, quando Simone de Beauvoir diceva che donna non si nasce ma si diventa non intendeva «percependosi tale pure se hai la barba», ma proprio per niente, se lo dici allora sei Terf, cioè transescludente, una parola usata più a casaccio di «radical chic»).

Un po’ mi chiedo se questi grandi giornali – che, sperando nessuno si accorga che stanno all’improvviso cambiando corsia in autostrada, si riposizionano fischiettando vaghi – siano indicativi che è finita, basta, la rotta s’inverte, non leggeremo più stronzate come «hanno bisogno di abortire anche le persone non binarie» (specialmente loro, in quanto tristi e solitarie).

Un po’ mi fanno arrabbiare, perché se c’è una cosa cui servono gli intellettuali è non assecondare lo spirito del tempo, non dire alle folle che sbavano insensatezze e cancelletti ciò che le folle vogliono sentirsi dire, avere il coraggio di fare cose peraltro banali (per citare Ricky Gervais, si tratta di dire che chi ha il pene non è una donna: chi avrebbe mai detto potesse diventare un’affermazione controversa) prima che cambi la marea.

Un po’ li capisco. Ieri, dopo tanti «persone con vagina», «persone con utero», «persone che mestruano», e «sesso assegnato alla nascita», ho letto un «persona socializzata come donna», e ho avuto tantissima voglia anch’io di scrivere un articolo in cui, Alice nel paese delle scemenze, trasecolavo perché, ohibò, ma avete visto che curiosa deriva ha preso il dibattito? Chi l’avrebbe mai detto. E poi stare a guardare mentre i giornali americani mi rispondevano che loro è almeno una settimana che m’avvisano che la situazione s’è fatta assurda.

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