E poi non rimase nessuno, and then there were none, si potrebbe dire, se solo Dieci piccoli indiani fosse ancora un classico da spiaggia e non un impresentabile titolo che non tiene conto della sensibilità dei nativi americani.
Ieri pomeriggio, nel giro di poche ore, Bari Weiss si è dimessa dal suo posto nella redazione editoriali del New York Times (con una lettera, potete leggerne stralci qui, che assai eloquentemente descrive l’atmosfera da 1984 – inteso come romanzo di Orwell, non come estate in cui ballavamo Kalimba de luna – che si vive nei media nel 2020); e Andrew Sullivan ha annunciato che quello di venerdì sarà il suo ultimo editoriale sul New York Magazine.
(Qualcuno del NYT mi dice «Formeranno una media company insieme», ed è una battuta, ma viviamo tempi interessanti: è un attimo che una battuta diventi una notizia, e Sullivan ha promesso grandi annunci per venerdì).
Se non avete idea di chi siano Weiss e Sullivan, portate pazienza e ve lo spiego; se state sbuffando perché questo è il quattrocentesimo pezzo che leggete da queste parti sulla cancel culture, e nello specifico il centesimo che scrivo io, sappiate che poteva andarvi peggio: potevamo cominciare due anni prima.
Il grande non detto è che questo delirio collettivo è cominciato nell’autunno 2017, e a farlo cominciare è stato quel movimento vanesio e capriccioso denominato MeToo. È stato allora che si è stabilito che, se reclamavi per te l’etichetta di vittima, se la reclamavi a dispetto delle evidenze, se dicevi che a letto col produttore ci eri andata altrimenti la tua carriera sarebbe finita anche se ovviamente nessun produttore può distruggere la carriera di nessuna attrice, allora eri invincibile, allora tuo era il regno, tua la potenza, e la sospensione del senso del ridicolo.
Se però a quel gioco di appropriazione della fragilità ti sottraevi, eri il nemico, eri quella cui si poteva dare la caccia impuniti, eri quella che non si assoggettava al ministero dell’amore (che già dal nome non lascia dubbi: loro sono i buoni, la stronza sei tu) e quindi veniva inseguita dalla psicopolizia.
Partita dalle questioni sessuali, la dittatura della fragilità si è presto estesa ad altri àmbiti (la razza, il genere, qualunque dettaglio identitario vi venga in mente), e non poteva che essere così: garantendo spazio a chi è privo di qualità professionali se solo quel qualcuno si astiene dal dire cose diverse da ciò che la maggioranza dell’ambiente culturale ha deciso essere il punto di vista presentabile, essa rappresenta un irresistibile ascensore sociale per mediocri.
Nei primi mesi del 2018, Weiss e Sullivan sono stati tra i primi a capire dove stavamo precipitando.
Lei scrisse un articolo sulla resistenza al partito dell’amore (quello di Orwell, non quello di Cicciolina) in cui definiva il suo gruppo di amici “intellectual dark web”. Ve ne ricopio l’incipit: «Ecco alcune cose che sentirete se andate a cena con l’avanguardia dell’intellectual dark web. Ci sono fondamentali differenze biologiche tra uomini e donne. La libera espressione è sotto attacco. La politica identitaria è un’ideologia tossica che sta lacerando la società americana. E siamo in pericolo se queste idee sono considerate dark, oscure».
Lo so: sembra un articolo scritto nelle ultime settimane, a proposito del caso Rowling. Quelli bravi li riconosci perché si accorgono dei fenomeni prima che siano evidenti proprio a chiunque.
Ricordo che la mattina in cui uscì il pezzo aprii Twitter prima del New York Times, e quindi lessi i commenti indignati prima di leggere Weiss. I buoni dei social erano offesi che a una che non la pensava come loro fosse dato spazio per esprimersi, e determinati a dire che non c’era affatto un problema di monoliticità del pensiero a sinistra. Non sarai mai solo con la schizofrenia.
Un paio di mesi prima, Sullivan aveva scritto un editoriale sul New York Magazine spiegando che i suoi amici lo sfottevano per la sua fissazione col feticismo della fragilità praticato nelle università: erano dei ragazzini scemi, chi mai gli avrebbe dato retta su concetti come trigger (le cose che non vanno dette perché potrebbero dispiacere a qualcuno) e safe space (il diritto a non incrociare idee spiacevoli); lui però era convinto che ragazzi cresciuti così poi sarebbero diventati adulti ottusi che governavano i media e il mondo.
Avanzamento veloce.
Due anni dopo.
Un mese fa.
Quando il New York Times licenzia il responsabile delle pagine degli editoriali, colpevole d’aver pubblicato un articolo d’un senatore repubblicano, suscitando dispiacere nel collegio elettorale degli ex universitari di Twitter, Bari Weiss pubblica una serie di tweet piuttosto lucidi nell’analizzare la situazione.
Racconta un NYT diviso tra giovani smaniosi d’essere dalla parte giusta, e vecchia guardia ultraquarantenne. Il primo gruppo dà più importanza alla propria salvaguardia emotiva che ai principi giornalistici e liberali (cioè: quel che ci aveva spiegato Sullivan due anni prima sarebbe successo quando i nuovi studenti fossero usciti dalle università; un concetto che ribadisce anche Weiss nei suoi tweet).
Cita un caso del 2018 (ve l’avevo detto che quello era l’anno zero) che abbiamo dimenticato, sommerso da altri mille, ma che fu emblematico: la volta in cui il direttore del New Yorker dovette disinvitare Steve Bannon dal festival del giornale perché il collegio elettorale di Twitter aveva deliberato che noi siamo i buoni e coi cattivi non ci parliamo.
Il dettaglio interessante è che Weiss ha 36 anni (cioè: non è nel gruppo degli ultraquarantenni, dovrebbe essere una delle giovani beghine); d’altra parte Sullivan, che ha vent’anni più di lei, è un gay conservatore, uno che vent’anni fa era a favore della guerra in Iraq e del matrimonio gay. Le idee interessanti vengono sempre da quelli che sono un po’ laterali rispetto alla casella in cui ti aspetteresti di trovarli. (Conservo una mail di Weiss firmata «una femminista che sbaglia»).
Ieri il direttore del New York Magazine ha spiegato che il giornale e Sullivan non potevano più funzionare insieme, era una dichiarazione abbastanza confusa ma parlava di far scrivere gente che «perori i nostri valori». C’è da chiedersi se funzioni un giornale fatto per il collegio di Twitter, che sia il Times o il New York o il Vanity Fair americano che, da quando non è più diretto da Graydon Carter, si picca di mettere in copertina gente che corrisponda sempre ad almeno una quota gradita (lesbica, nera, se entrambe tanto meglio): qualcuno si è posto il problema che il collegio di Twitter non compra giornali, al massimo twitta che lui sì li farebbe meglio?
Ora Weiss farà causa al NYT, per la discriminazione sul luogo di lavoro cui già accenna nella lettera di dimissioni, probabilmente ingaggiando un avvocato che le somigli: repubblicano inviso ai repubblicani, democratico inviso ai democratici.
Sullivan aspettiamo che ci dica cosa farà, ricordando che a un certo punto smise di scrivere per i giornali e mise su un blog a pagamento. 20 dollari d’abbonamento l’anno, fatturava un milione l’anno. Ci sono testate prestigiose che ci metterebbero la firma, nell’anno della gratuità 2020.
Leggendo Bari Weiss dire che le esprimono solidarietà in privato perché temono di venire linciati se si collocano dalla parte sbagliata in pubblico, mi è tornata in mente JK Rowling, che ha detto la stessa cosa delle sue amiche trans, venendo accusata dal collegio di Twitter d’inventare amiche immaginarie. Giacché, nel mondo della psicopolizia, se racconti casi in cui la gente ha paura della psicopolizia stai sicuramente mentendo; giacché, nella dittatura del pensiero perbene, non c’è ragione di temere ritorsioni se dici una cosa non allineata.
L’altro giorno Repubblica ha scritto che “cancel culture” significava “cancellazione della cultura”. Sono stati molto irrisi (il collegio di Twitter dice che la cancel culture non esiste, ma saprebbe tradurla meglio); si sono scusati; hanno chiarito che significa invece “cultura della cancellazione”.
Ma io non credo fosse un errore. Credo fosse Freud che dalla tomba rideva di noi e ci faceva balenare il sospetto che sia esattamente quel che è in atto: la cancellazione della cultura. Della cultura del dibattito animato, della cultura del non essere d’accordo, della cultura del non pensarla tutti allo stesso modo. Dell’unica cultura degna di dirsi tale.