Siamo tutti Rosa ParksLa sindrome della ricerca dell’attenzione e la #salutementale curata dai cancelletti

Chi si sente un impostore, chi subisce hair shaming (sì, esiste anche questa suscettibilità), chi è insofferente per la folla in centro. Il concetto di limite caratteriale è stato dichiarato superato come le cabine telefoniche e il mondo dei social è diventato un circo della dolenza

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Ricky Gervais sente ancora le ferite di quand’era poco ricco. Lo dice nel passaggio migliore di Supernature, il nuovo monologo su Netflix da ieri; il passaggio in cui finalmente mette in pausa un prolisso editoriale sulle donne trans e le battute per cui la gente si offende, sui tweet in cui lo insultano e altre cose che non si prende il disturbo di renderci interessanti.

Lo dice quando ci ricorda che è anche lui una minoranza (quindi: oppressa) essendo un etero bianco ricco: saremo l’uno per cento, butta lì con mimesi di dolenza. «Sono praticamente Rosa Parks, ma ho lottato per non dover mai prendere un autobus».

Chiara Ferragni sente ancora le ferite di ogni volta che le sue follower le scrivono, facendola morire di noia con le loro dolenze, costringendola a dissimularla, quella noia, perché è così che si fattura oggigiorno: dicendoti che le tue ferite, cara la mia acquirente, sono proprio speciali, sono anche le mie. Pensiamo sempre di non valere abbastanza, pigolava ieri CF in una diretta sponsorizzata da una ditta di shampoo, mentre una psicologa con la dizione di chi non è mai uscita dalla Campania le diceva certo, è vero, non viviamo affatto in una società di mitomani, macché, abbiamo tutti la sindrome dell’impostore. Può la sindrome dell’impostore convivere col fatto che una che parla in pubblico non si preoccupi di studiare abbastanza da non pronunciare «uömini»? Secondo me no, ma io mica fatturo coi cuoricini, che ne so di questo mondo. 

C’è un grande pregiudizio verso la psicoterapia, giurava la psicologa senz’uso di dizione, e io pensavo ma le psicologhe dell’Instagram vendono quasi più libri dei giallisti, ma incassate più dei benzinai per dire a ogni mitomane che non si stima abbastanza, ma di pregiudizio non ce n’è abbastanza.

Gli shampi si preoccupano della nostra, cancelletto, #salutementale, e anche, giuro, dell’hair shaming, una sindrome persino più struggente di quella dell’impostore, un segnale di benessere come raramente se ne sono visti: siamo talmente privi di problemi reali che c’inventiamo il trauma di avere capelli brutti. Trauma peraltro a me caro, avendo io quattro capelli e pure sottili e pure ricci: ogni volta che vedo un’Aurora Ramazzotti, coi suoi capelli lucidi e grossi e invidiabili, fare i video sponsorizzati contro la piaga dell’hair shaming, ogni volta mi chiedo come la prenderà il paese reale, compresa la psicologa con dizione impresentabile e l’handicap d’essere riccia.

Esiste un pubblico di gente ordinariamente sfortunata con la genetica, di donne come me che hanno i capelli come fossero perpetuamente in chemioterapia e nessuno le chiama a fare da testimonial della loro impresentabilità, e che quando vede queste tizie poco ricche e vere lisce s’incazza esattamente come quando vede quelle che pesano un chilo da bagnate e s’inventano d’avere la cellulite?

Chi è il pubblico delle campagne sull’hair shaming, oltre a gente che quello shampoo lì lo compra per le ragioni per cui si compra uno shampoo (perché è in offerta al supermercato)? C’è qualcuno che crede a giovani milionarie traumatizzate dal non essere bionde naturali? Che le prende sul serio? Che annuisce di fronte alla sindrome dell’impostore della tinta? Esisterà mai l’equità sociale necessaria a scartare, come testimonial dei capelli invalidanti, donne che possono permettersi di lavarseli sotto la doccia e risultare presentabili?

In giro per i social ci sono i video di chi sente ancora le ferite dello scudetto, non per ragioni di tifo ma perché ha scoperto, in occasione dei festeggiamenti milanisti, che in centro a Milano la domenica pomeriggio c’è casino.

Una volta essere intolleranti del casino era un limite caratteriale (so di cosa parlo, è uno dei molti limiti che m’appartengono): non andavi in centro nel fine settimana perché sapevi di dover fare a gomitate con la folla, e la folla non ti piaceva. Così come non andavi in discoteca, o ai concerti, o persino in pizzeria il sabato sera.

Poi i limiti caratteriali sono stati dichiarati superati come le cabine telefoniche, e adesso abbiamo solo questioni di, cancelletto, #salutementale, e quindi se ti danno fastidio le folle rumorose tu che soffri divieni un video che sensibilizza, e che ha dignità di risposte solidali sui social («virale», si dice in frasifattese). Gli adulti penseranno che sei scema, mentre cliccano annoiati in ufficio facendoti sì salire le visualizzazioni ma con disprezzo; e tu hai vent’anni e non hai gli strumenti per spiegare che essere scema è un tuo diritto, che anche loro erano scemi alla tua età, ci mancherebbe solo uno non fosse scemo a vent’anni, e dovete smetterla, cari adulti di questo secolo, d’approfittare del vostro maggior vantaggio competitivo: aver avuto vent’anni (ma pure trenta) lontani dalle telecamere.

L’altro giorno Vulture ha mandato una trentaequalcosenne ad assistere a una conversazione in cui Tom Cruise, a Cannes, spiegava il proprio rapporto col cinema. L’articolo era straziante, tutto affettazione di disprezzo della carneade – equipaggiata del delirio d’onnipotenza tipico delle trentenni – verso Tom Cruise. Leggevo e pensavo: che fortuna che non ci siano in rete gli archivi delle stronzate che scrivevo alla sua età, che fortuna che ora non debba rileggermi pensando «ma ci pensi che a un certo punto son stata così scema da pensare di non aver niente da imparare da Tom Cruise?».

La fortuna d’essere diventati grandi in tempo da capire che, se chiedono a Cruise perché filmi senza controfigura le scene pericolose, e lui risponde «nessuno domandava a Fred Astaire perché ballasse», lì c’è qualcosa da imparare (le cronache differiscono: secondo alcuni Cruise avrebbe usato nella risposta il nome di Gene Kelly).

La trentaequalcosenne andava a scuola quando Tom saltò sul divano di Oprah. Decidemmo che era matto. Era una cosa che allora potevi stabilire degli sconosciuti e anche dei parenti. È matto, poverino. Non era il secolo in cui, come ricorda Gervais, ti chiudevano in manicomio se restavi incinta da nubile, o se divergevi in misura anche minima dalle norme sociali; ma era prima, per usare sempre la divisione temporale gervaisiana, che invertissimo il problema, e nessuno fosse più matto.

Adesso abbiamo delle sindromi. Dell’impostore, dei capelli brutti, dell’insofferenza per la folla, del saltare sul divano e produrre la madre di tutti i meme prima ancora che esistessero i social. Alcune sindromi ci rendono più fragili di altre. Non hanno quasi mai a che fare coi cancelletti, e quasi sempre con la possibilità di non prendere mai nella vita un autobus.

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