Progetto SmartIl giorno in cui mio fratello Draghi ha trattato da imbecilli gli imbecilli

Il presidente del Consiglio ha imparato la lezione più importante del presente, ovvero che non vale più «mi sono spiegato male». Per questo ai senatori che gli hanno attribuito di volere pieni poteri ha riletto le sue esatte parole, con l’aria schifata che ha Maggie Smith in Downton Abbey

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Le ventiquattr’ore in cui mi sono sentita sorella di Mario Draghi si sono svolte tra martedì e mercoledì, tra Washington e Roma. È cominciato tutto quando Alexandria Ocasio-Cortez – la più furba delle millennial suscettibili e ignoranti – ha messo le mani dietro la schiena mentre la polizia la allontanava da una manifestazione.

Sapeva cosa sarebbe successo: le foto l’avrebbero ritratta con le mani tenute come fosse ammanettata. Vai poi a spiegare, scrivere editoriali che nessuno leggerà, invitare a guardare per intero i video in cui alzava il braccio destro, che teoricamente era ammanettato al sinistro, a salutare la folla. Un’immagine vale più di mille parole: volete che non lo sappia AOC, la Ferragni del parlamento statunitense?

Mi sono ricordata di mille conversazioni in cui avevo sostenuto che Draghi non l’avrebbe mai votato nessuno, senza social, senza cuoricini, giusto una barzelletta di recente ma per il resto nessuna concessione al mercato del «dovete esser simpatici, amabili, gente con cui andremmo a cena, se siete o no capaci a fare il vostro lavoro viene dopo». Draghi è uno che può essere solo nominato, mai eletto. Sia detto a demerito di noialtri, l’elettorato del ventunesimo secolo, quello più scemo della storia del suffragio universale.

E quindi è arrivata la giornata di ieri, i siti e i social avevano i prevedibili titoli su Alexandria Ocasio-Ferragni arrestata, condotta via in ceppi, martire del libero pensiero. (Lei twittava che non di performance fotogenica s’era trattato ma di buona abitudine quando t’arrestano: se metti le mani dietro la schiena non t’accusano di fare resistenza e non ti sparano, rischio concreto quando arrestano deputate davanti a decine di telecamere).

Intanto, al senato italiano, parlamentari dei quali non riuscivo a capire i partiti parlavano di che cosa avrebbe dovuto fare Draghi per accontentarli. (Ho passato un numero inammissibile di minuti a cercare di capire cosa fosse il sottinsieme del gruppo misto chiamato «Progetto Smart», e ho fallito).

Ma, soprattutto, è arrivata la giornata in cui mio fratello Mario Draghi ha fatto un errore: ha citato l’appello dei sindaci per dirci che è molto desiderato, un po’ come Alba Parietti che pubblica foto del culo dicendo che non sarà come quando aveva trent’anni ma non può rifarselo perché Vittorio Sgarbi le ha detto che è monumento nazionale. (Draghi non sapeva a cosa somigliasse il suo citare i sindaci: non avendo Facebook, non segue la pagina di Alba Parietti).

Ha citato questo benedetto appello e il risultato è stato che, per tutto il pomeriggio, tutti gli smart che volevano attaccarlo hanno detto eh sì ma quelli che l’hanno firmato sono duemila, vuol dire che ce ne sono seimila che non ti vogliono. Ma non è per questo che l’ho sentito fratello (pubblicherei d’altra parte anch’io foto del culo, se somigliasse a quello di Alba Parietti sessantenne; se somigliasse a quello di Alba Parietti trentenne, andrei direttamente in giro nuda).

Non è stato neanche perché quelli dibattevano e io continuavo a canticchiare «Se stanno insieme ci sarà un perché, e Draghi vorrebbe riscoprirlo stasera» (che fastidio, non ci sta con la metrica).

E non è stato neanche – un po’ sì, ma solo un po’ – perché gli interventi mi ricordavano il mio metodo per compilare il tema di maturità. Era uscito Leopardi, ci chiedevano di dimostrare non so più che tesi rispetto alla sua poetica. Annotai i versi che mi ricordavo (che in questo momento sono solo «quando beltà splendea negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi», ma all’epoca ce l’avevo più fresco, visto che il limitare di gioventù salivo), e decisi che quelli sarebbero stati i versi che dimostravano la tesi. Costruii il tema intorno alle citazioni.

Gli interventi in Senato sembravano fatti con lo stesso criterio. La Rauti e poi La Russa che si appropriano culturalmente di Scola (la sinistra è talmente impegnata a guardare serie coreane su Netflix che lascia Sordi e Manfredi alla destra: che malinconia). La Russa che fa suo persino Dalla, coi sacchi di sabbia vicino alla finestra, e Gaber, santo cielo: manca solo Pizzaballa. Gasparri che con «noi dicevamo le cose giuste anche prima» sembra quasi citare Nanni Moretti, ma che è, il pomeriggio delle appropriazioni culturali; c’è uno che chiaramente in omaggio a Guglielmi mescola l’alto e il basso, «Li sfonnamo de brutto» e Winston Churchill; ma per fortuna ci sono anche cialtroni che hanno riciclato un discorso vecchio e continuano a ripetere «siamo al 14 di luglio».

Non è per tutti i derelitti che hanno avuto i loro bravi minuti per esprimersi, che ho sentito fratello un banchiere che non ha mai usato il cuore. È accaduto che abbiamo passato la giornata a sentire che Draghi aveva chiesto pieni poteri, con tutto il corredo di madeleine (il mojito, il Papeete, Salvini in felpa, Salvini con la faccia tra le tette della cubista, quella memorabile estate che dovrebbero mandare in replica su Italia 1).

I senatori che somigliano all’elettorato, i giornalisti che somigliano al loro pubblico: tutti hanno continuato a parlare di questa richiesta di pieni poteri.

Poi, a un certo punto del pomeriggio, Draghi ha ripreso la parola, con l’aria schifata che ha Maggie Smith in Downton Abbey, e ha detto che non gli pareva stessero parlando di cose che aveva effettivamente detto, «vorrei a questo punto rileggere esattamente le cose che ho detto». Le ha rilette, giuro, col tono di chi spiega come si lucida l’argenteria a una cameriera particolarmente ottusa.

Fratello, sapessi le volte che mi chiedono conto di un verbo che non ho mai usato, e penso: certo, è il verbo del titolo, abitiamo un tempo in cui si contestano gli articoli avendo letto solo i titoli. Non glielo puoi neanche far notare, perché ti dicono ah, vile, prendi le distanze dal titolista, stai dicendo che ha tradito il tuo pensiero. No, imbecille che eleggi altri imbecilli, sto dicendo che un titolo è una sintesi, se vuoi criticare le mie precise parole leggile, stanno lì, puoi farlo. Poi non ho mai la pazienza di dirglielo. Draghi sì, e io d’ora in poi lo copierò.

Imparerò tutto da lui, che ha imparato la lezione più importante del presente, ovvero che non vale più «mi sono spiegato male». Quello valeva quando chi si prendeva il disturbo di risponderti era perlopiù dotato di comprensione del testo. Adesso, che l’aspirante opinionista ti risponde non avendo ascoltato il tuo discorso, ma avendo letto una card su Instagram che dice che vuoi pieni poteri, adesso che l’aspirante opinionista ti dice che Alexandria Ocasio-Ferragni è stata condotta via in ceppi, ha visto le foto, adesso puoi solo dirgli: imbecille, te lo ripeto. Poi lui «imbecilli» ai senatori e ai commentatori televisivi e social non l’ha detto; ma nel tono c’era, altroché se c’era.

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