L’altro giorno ho chiamato la più intelligente tra le mie amiche Telefonicamente Problematiche. Non ha risposto, come sempre. Come sempre quando mi serve qualcosa che non può aspettare, le ho mandato un messaggio con scritto di chiamarmi. Il che già mi fa bestemmiare: ti ho chiamato, non mi hai risposto, per le persone sane di mente è ovvio richiamare. Per i Telefonicamente Problematici no: a loro bisogna specificare che devono richiamare, tipo i mariti cui devi dire sette volte di far riparare lo scaldabagno, i figli cui devi dire sette volte di fare i compiti, gli editori cui devi dire sette volte di riscrivere la quarta di copertina.
A quel punto l’amica – che, ricordiamo, è della razza sua la più intelligente: pensa gli altri – mi ha scritto che era incasinata e non sapeva quando avrebbe finito: non potevo scriverle? Ora, io ho un brutto carattere. Sono insofferente a molte cose, e hanno quasi tutte a che fare col tempo. Perché devi farmi perdere tempo a comporre un messaggio in cui ti spiego la ragione per cui la conversazione che dobbiamo avere non può avvenire via messaggi? Perché non dai per scontato ch’io sia molto più intelligente di te e sappia quali mezzi sono adatti a quali conversazioni?
Ho perso un minuto per comporre un messaggio d’una riga e mezzo in cui sintetizzavo un pasticcio in corso, lei mi ha risposto dopo dieci secondi «esco di qui e ti chiamo», e dopo un minuto m’ha chiamata. Ovvero: abbiamo avuto la conversazione che avremmo avuto cinque minuti prima se solo lei avesse dato subito per scontato che, se la chiamavo, un motivo c’era. Invece ha dovuto farmi perdere tempo a convincerla. Ha dovuto farlo perdere a me, che non ho fatto figli per non dover ripetere loro di fare i compiti.
Ieri ho telefonato alla più scema tra le mie conoscenti TP. Non mi ha risposto. Era l’una. Mi ha scritto: sono a un pranzo, scrivi. Ho pensato: ma brutta cretina, secondo te se ti chiamo è perché voglio scriverti? Ma brutta cretina, sei a un pranzo e ti pare più educato metterti a prendere a ditate il touchscreen a tavola per rispondermi che dire scusate un attimo sento cosa vuole la Sorcioni? Ma brutta cretina, ma secondo te io ho tempo di mettermi a comporre messaggi, sebbene avvantaggiata dall’avere un Blackberry con una vera tastiera mentre voi TP mandate messaggi pieni di refusi composti con diti unti su vetro Apple?
Poche ore dopo (ieri doveva esserci un allineamento di costellazioni, e i TP erano in gran spolvero) ho ricevuto un lunghissimo messaggio di testo di una vecchia amica, della più ridicola sottospecie di TP: quelli che hanno come frase di stato su WhatsApp «non ascolto i vocali».
Negli anni Novanta Gino e Michele scrissero uno dei pezzi invecchiati peggio della storia del giornalismo di costume italiano. La protagonista, da essi detta «il puttanino» (oggi li lincerebbero per meno), era una signora che, tra le corsie del supermercato, commetteva la nefandezza di telefonare dal cellulare al marito per sapere che formato di pasta volesse.
Una cosa che oggi facciamo tutti, trent’anni fa davvero era una cosa che ti faceva sembrare un’esibizionista vanziniana? Forse. Quel che è certo è che, se vuoi fare satira sociale, la cosa principale che devi saper fare è distinguere tra i mostri e le avanguardie, tra le eccezioni e le profezie. Oggi che chiamare dal supermercato è una cosa che sono ragionevolmente certa facciano sia Gino sia Michele, pare assurdo che ci sia stato un tempo in cui la trovavamo una esilarante burinata.
Coi messaggi vocali finirà nello stesso modo, ma è iniziata molto peggio. Negli anni Novanta, quelli che schifavano il cellulare non lo avevano, o lo usavano di nascosto e pochissimo. E comunque raramente si presentavano al mondo dicendo mi chiamo X e non possiedo il cellulare. I dichiaratori di non ascolto dei vocali, invece, scambiano questa scemenza per un’identità da rivendicare, se la mettono in biografia, ne fanno una dichiarazione d’intenti. E poi, quando lasci loro un vocale (se sei prepotente, certo non ti fai inibire dagli avvisi di non ascolto; se conosci la natura umana, sai quanto contino le dichiarazioni d’intenti), lo ascoltano entro cinque secondi. Se facessero una gara tra riceventi di vocali per vedere quale di essi faccia più velocemente diventare azzurro il microfonino che indica l’avvenuto ascolto, vincerebbe senz’altro un TP.
Quindi l’amica che dichiara di non ascoltare i vocali mi scrive un lungo messaggio di testo, per dettagliarmi le avvincentissime ragioni per cui non ha risposto a una mia telefonata del giorno prima. Messaggio la cui compilazione le ha portato certamente via più tempo di quanto ne avrebbe trascorso al telefono con me (che dovevo solo comunicarle di avere la possibilità di prenotarle una cosa che voleva, possibilità nel frattempo scaduta: i TP perdono un sacco di occasioni, un po’ tipo Gino e Michele che mangiavano la pasta del formato meno preferito perché non avevano risposto alle mogli che chiamavano dal supermercato).
Il fatto è che il vocale è una grande metafora. Chi non lo ascolta dice scemenze tipo eh ma se io sono in mezzo a una riunione come faccio a sentirti (sentimi dopo: mica sei un cardiochirurgo cui devo comunicare la disponibilità d’un organo da trapiantare), tipo eh ma io due minuti per ascoltarti non ce li ho (invece due minuti per mandarmi dieci righe piene di refusi non solo ce li hai ma sono molto ben spesi); ma la vera verità è che è una gara di egoismi.
Scriverti richiede l’esclusiva. Chiamarti o lasciarti un vocale è una cosa che posso fare mentre lavo i piatti, apro a Glovo, cammino, scrivo questo articolo, faccio il cambio degli armadi, faccio asciugare lo smalto. La voce, diversamente dal testo, non richiede concentrazione, mani occupate, occhi sullo schermo. È più impegnativo per te che ricevi il vocale e devi abbassare il volume di qualche podcast per ascoltarlo? O per te che sei maschio (mi spiace) e quindi non sai stare al telefono facendo altre cose? Eh, ma questi son problemi tuoi, caro il mio TP. Dovevi trovarti un’amica più altruista, o meno impegnata a far asciugare lo smalto.