Ci sono scrittori per i quali la letteratura è sorta di gioco di sponda con la vita, dove questa vi è rappresentata attraverso l’onirico e il simbolico, e dove l’immaginazione lascia soltanto trasparire barlumi di realtà e per di più chiamando in causa il lettore, che ha davanti una intera tavolozza per ricreare quelle immagini appena tratteggiate.
Dall’altra parte vi sono quelli che nelle lettere impongono un cambiamento di ritmo nella lettura di una realtà documentata o documentabile.
Poi vi è Sciascia, che sembra unire questi due mondi, tenendo insieme, le sue lettere, l’attenzione informata alla cronaca e alla storia con quella possibilità di renderle simboli, di astrarle dalla contingenza con la forza dell’onirico.
Abbiamo visto come Sciascia tenesse in grande considerazione Borges, rappresentandolo come sorta di paradigma degli scrittori del primo tipo poc’anzi evocati. Uno scrittore che attraverso i labirinti evocava l’impossibilità di comprendere il mondo, lo spiazzamento umano di fronte al mistero dell’esistente.
Arrivò a definirlo – summa delle contraddizioni di quel secolo – teologo ateo perché «ha fatto diventare il ‘discorso su Dio’ un ‘discorso sulla letteratura’. Non Dio ha creato il mondo, ma sono i libri che lo creano. E la creazione è in atto: in magma, in caos». E Sciascia riconosceva la differenza con questo scrittore così amato e studiato. Sciascia, così attento alla storia e alla cronaca del suo tempo, e che in questa si immergeva con la passione civile che ho messo in evidenza, vedeva Borges sfuggire alla storia nei suoi labirintici giochi di specchi:
I nomi che facevo posso ora, in una migliore e più assidua conoscenza dello scrittore, considerarli più approssimativi che approssimati: possono avvicinarsi a Borges e avvicinarcelo, ma non intrinsecamente. L’errore era però un altro: l’avere usato la parola storia invece che la parola tempo. Poiché non dalla storia è ossessionato Borges, ma dal tempo. Per lui la storia non è che l’assurdo corollario di quella più vasta e spaventosa assurdità che è il tempo. E arriva al punto da desiderare che si sperda o si consumi, il tempo, almeno sul suo nome, sul suo ricordo, sulle sue pagine: una volta scontatolo nella vita, con la vita.
Sono come speculari, questi due autori. Da un lato lo scrittore Borges, che trova i labirinti della vita nell’onirico, dall’altro un autore che li trova nella cronaca, dove il sogno è, semmai, approdo confondente di storie fondate nella realtà contingente o storica. Sorta di giocatore di biliardo, Borges, con la vita e con il mondo, sempre attento alle sponde dell’onirico; poi c’è Sciascia che nella vita si immerge, quasi fosse uno sport di lotta, di contatto, un corpo a corpo, dal quale sapeva di uscire comunque sconfitto ma anche che quella lotta, quella resistenza della ragione, era l’unica vittoria dell’umano che l’umano avesse a disposizione. Così la sua tormentata relazione con la politica, dalla simpatia per il Partito Comunista fino alla rottura con questo, che percepisce essere troppo attento alle alleanze, mettendo in ombra i contenuti emancipativi del suo ruolo politico; cosa che si acuisce durante il periodo della solidarietà nazionale e del miglioramento dei rapporti tra quel partito e la Democrazia Cristiana. E poi l’approdo al Partito Radicale e le sue battaglie parlamentari orientate nel senso di una laicità militante e attenta ai diritti delle persone umane (come le avrebbe chiamate lui); le controversie, anche ruvide, contro l’antimafia e quelli che considerava i suoi professionisti, che gli valse mille polemiche, fraintendimenti e necessità di chiarire.
Per Sciascia la letteratura è parte della vita vissuta e sale all’onirico, al simbolico quasi sgravandosene come esito di un percorso di un attraversamento al termine del quale troviamo un tenace concetto che consiste nell’umanità.
Per altri scrittori le lettere sono sì parte della contingenza e della vita; il flusso delle loro parole si dipana nella cronaca ed è pure animato da simile passione civile. Ma quelle parole hanno una immediata spendibilità che si deprezza nel momento in cui il contingente si trasforma, e quella semantica, così incapace ‒ a differenza di quella di Sciascia ‒ di levarvisi, evapora con il passare del tempo.
Impegnarsi nella ricostruzione della vicenda di Moro significa quindi per Sciascia affondare la penna dello scrittore nella carne viva della sua epoca, dopo averla intinta nell’inchiostro della passione civile alla ricerca di una reazione rispetto all’assopimento collettivo di fronte alle ragioni del potere.
Parimenti fa Sciascia quando affronta la questione della mafia, entrando nella carne viva di un contesto di trame oscure che lega la Sicilia all’Italia; e con la stessa passione cerca di districare la matassa del caso Majorana che, pur partendo dalla sua Isola, tende un filo immaginifico che arriva alle bombe di Hiroshima e Nagasaki.
Per di più, le circostanze, assolutamente contingenti, duramente e drammaticamente reali, si aprono a un’indagine meticolosamente documentaria ma supremamente letteraria, con quel suo chiamare a raccolta la letteratura per districare le trame più complesse, nel convincimento, che è anche un obiettivo, di giungere a «una ‘verità romanzesca’ più vera di quella ufficiale» (Di Grado 2014: 35)[1]. Come forma di sincerità verso quel carattere utopico di imprese di questo tipo. José Ortega y Gasset, il grande filosofo spagnolo che aveva sviluppato la propria filosofia proprio a partire dalla lettura del romanzo che dei romanzi è considerato l’archetipo, il Don Chisciotte[2], considerava l’utopia come il darsi un obiettivo che non può essere perseguito. Nel nostro caso, dipanare tutti quei garbugli del reale con le lettere. Ma così facendo si aprono nuove e impreviste possibilità creative che permettono proprio quell’elevazione di cui scrivevo prima, che permette di concepire l’umano e la sua vita relazionale come summa di tutte quelle esperienze.
Tzvetan Todorov mette in evidenza un rapporto stretto, sorta di parentela, tra la letteratura e le scienze umane e la filosofia, in quanto tutte mosse dalla curiosità sulla società. E scrive: «Come la filosofia e le scienze umane, la letteratura è pensiero e conoscenza del mondo psichico e sociale in cui viviamo. La realtà che la letteratura vuole conoscere è semplicemente (…) l’esperienza umana» (Todorov 2008: 66). Senza disconoscerne le differenze, dato che «l’una [la letteratura, n.d.a.] preserva la ricchezza e la diversità del vissuto, l’altra favorisce l’astrazione, che le consente di formulare leggi generali» (Todorov 2008: 66-67). Così simili e così dissimili, quindi, la letteratura e le altre scienze; la diversità sta proprio in quella capacità letteraria di preservare ricchezza e varietà del vissuto.
Questa contiguità dello sguardo gettato sullo stesso oggetto, a partire da differenti prospettive, era già stata messa in evidenza da Robert Nisbet: «Che uomini come Weber, Durkheim e Simmel siano parte nella tradizione della scienza è fuor di dubbio. I loro lavori, nonostante la profonda sensibilità e intuizione artistica, non appartengono alla storia dell’arte più di quanto i lavori di Balzac e Dickens non appartengano alla storia della scienza sociale».
Ma mentre Sciascia riflette sulla letteratura sembra fare intravvedere qualcosa di più. La letteratura non solo come rispecchiamento, ma come fare e farsi della storia. Lo fa, per esempio, in alcune pagine del suo Nero su nero: «Forse è un sistema di oggetti eterni che variamente, alternativamente, imprevedibilmente splendono si eclissano tornano a splendere e ad eclissarsi – e così via – alla luce della verità». Sta forse qui, in questa definizione, che mette in gioco la capacità di splendere e il destino di eclissarsi, la ragione sociale della letteratura, il suo essere intrecciata con quanto accade di volta in volta. E la sua capacità di dare risposte, anche nella forma di domanda, senza la possibilità di giungere a una definitezza. E proprio Nero su nero è un libro dedicato alla verità, all’ansia di intravvederla insieme alla difficoltà di contenerla, di raggiungerla.
Un ruolo, quello della letteratura, quindi, di leggere nella venatura della cronaca il farsi dei vasi che irrorano la vita; vedere, a partire da una dotazione particolare, tipica dello scrittore, quello che altri non vedono, insieme, però, alla possibilità di fissare degli schemi che permettono di dare un senso ai fatti, di darvi ordine forse anche facendoli accadere: «Le sintesi non potevano apparire che anticipazioni, che profezie; se non addirittura istigazioni». I fatti, insomma, accadono se sono narrati, se hanno una loro possibilità di interpretazione. In questo doppio movimento è visibile l’orientamento alla verità della letteratura: nel mentre fa radiografie, utilizzando elementi che non sono necessariamente quelli piegati al realismo o alla verosimiglianza, lascia schemi capaci di dare ordine alle cose. E in qualche modo diventa essa stessa tenace concetto, impadronendosi della storia.
“Il tenace concetto. Leonardo Sciascia: la letteratura, la conoscenza, l’impegno civile”, di Fabrizio Catalano, Alfonso Amendola, Ercole Giap Parini, Rogas editore, pagine 120, euro 11