Il quadro politico italiano non è tanto complicato, anzi non è mai stato così semplice come adesso, nonostante le prestazioni non esaltanti dei protagonisti.
L’attuale legge elettorale, orrenda quanto si vuole, aiuterebbe a fare ulteriore chiarezza, se non ci fossero le acrobatiche discussioni di queste ore su fantomatici “accordi tecnici” tra forze alleate che però non sono possibili perché la legge prevede un solo tipo di accordo elettorale, quello senza aggettivi (fino a dieci giorni fa, c’era addirittura chi vaneggiava di possibili accordi di desistenza sull’uninominale, non avendo idea di come funzionasse il Rosatellum).
Il quadro politico è chiaro perché in Parlamento e nel paese ci sono tre gruppi di pressione ad animare il discorso pubblico: una coalizione di destra anti Draghi, una coalizione di sinistra di draghiani riluttanti e di anti draghiani e una coalizione di draghiani.
Certo, il Partito democratico contiene moltitudini e quindi al suo interno schiera draghiani accesi e antidraghiani radicali, ma da Zingaretti a Letta si trova decisamentevpiù a suo agio con gli antidraghiani a cinquestelle e di estrema sinistra che con i reietti Renzi e Calenda, figuriamoci con Carfagna e Gelmini.
Dovrebbero quindi fare tutti pace con la realtà delle cose e presentare agli elettori tre differenti ma chiare, precise e contrapposte proposte politiche.
La destra l’ha fatto, allineandosi alla neo, ex, post fascista Giorgia Meloni, con un programma più orbaniano che putiniano, ammesso che ci sia differenza, con Salvini spiaggiato e Forza Italia rasa al suolo.
La sinistra cerca di formare un’alleanza accozzaglia, tutti contro Giorgia, un classico della ditta neo, ex, post comunista, foriera quasi sempre di disfatte elettorali.
L’idea del Partito democratico è quella di evitare di dividersi presentando una visione del paese comune e coerente, giudicata impossibile da tratteggiare, e soprattutto diversa dalla denuncia dell’imminente pericolo fascista, dimenticandosi però che il Pd è corresponsabile del suddetto pericolo, avendo prima mutilato il Parlamento, poi alimentato il populismo grillino e infine sprecato la condizione tecnica di salvare la democrazia con una semplice leggina elettorale proporzionale pura, come quella del 1948, probabilmente per rispetto alla gloriosa stagione maggioritaria dell’Ulivo. Lascio a Francesco Cundari, nei prossimi giorni, la ricostruzione di una storia alternativa prossima ventura se i partiti avessero seguito quanto abbiamo scritto qui per tre anni con insistenza quotidiana.
Ma torniamo alle coalizioni del 25 settembre. Se le cose avessero un senso, il Pd dovrebbe riallacciare con i Cinquestelle anti Draghi, visto che corteggia alcuni dei protagonisti del patatrac del 20 luglio poi pentito sulla via della regola grillina del limite del doppio mandato che speravano Conte potesse cancellare.
Tra l’altro il Pd non ha nessun problema a farsi carico dell’ex capo politico dei grillini, già avversario principale alle scorse elezioni del 2018, né degli irriducibili antidraghiani per comodità chiamati comunisti e non cocomeri come si autodefiniscono, anche perché sono abbastanza anziano da ricordarmi che un tempo dare di cocomero agli ambientalisti, verdi fuori e rossi dentro, era considerato un insulto e non una photo opportunity da postare sui social.
Il progetto sinistro-populista del Pd, peraltro, sarebbe coerente anche con la grande trovata di Enrico Letta di aggiungere al simbolo del partito che troveremo sulla scheda elettorale l’acronimo DP, che per i più giovani magari potrebbe essere una categoria di YouPorn e non un bonus, ma per chi come me è cresciuto nella prima Repubblica è Democrazia proletaria di Capanna e Russo Spena, certo non Democratici e Progressisti.
Infine il terzo polo, quello dei draghiani, dei draghiani che hanno voluto Draghi, dei draghiani che lo hanno sostenuto senza mostrare il broncio e dei draghiani così draghiani da volerlo ancora a Palazzo Chigi nonostante Draghi non ne parli nemmeno per sbaglio.
Una coalizione che se fosse seria non avrebbe nemmeno bisogno di presentare un programma, anche se probabilmente sarà l’unica a farlo, perché il programma di riforme legislative, sociali, ambientali e di nuove infrastrutture fisiche e digitali da qui al 2026 è già scritto nelle 500 pagine del Pnrr.
Siamo talmente obbligati a questo programma, la famosa agenda Draghi, da aver sottoscritto un trattato formale con i partner europei che ci obbliga come nazione intera a rispettarlo, altrimenti perdiamo i duecento miliardi necessari alla ricostruzione post pandemica e anche lo scudo della Bce nel caso in cui lo spread con i titoli di Stato tedeschi dovesse andare alle stelle.
C’è un solo programma, quindi, si chiama Pnrr e vale per tutti. C’è una coalizione che vuole farlo saltare, e con esso anche l’Unione europea. Un’altra coalizione che per metà sa benissimo di che cosa stiamo parlando e per l’altra metà condivide dubbi e fastidi con i pericolosi fascisti dell’altro fronte. La terza coalizione, nel suo litigioso piccolo, sa perfettamente che cosa bisogna fare e nel farlo potrebbe aiutare la parte senziente e meno ideologica del Pd a non essere travolta dal populismo di sinistra.
Finirà così, con tre coalizioni contrapposte, come sarebbe naturale? Non è detto, anzi probabilmente succederà il contrario e sarà tutto molto più pasticciato.
Qualche anno fa un saggista americano scrisse un bel libro sul «mito dell’elettore razionale», la cui rincorsa elettorale ha spesso provocato epiche sconfitte politiche perché, appunto, non c’è nulla di ragionevole nella scelta di votare.
Archiviamo, dunque, il concetto di “elettore razionale”, un’entità mitologica che poi finisce per votare senza alcun senso Meloni, Salvini, Grillo, Trump e Brexit. Ma, per favore, lasciateci almeno la libertà di votare coalizioni razionali.