Carlo Calenda e Matteo Renzi stanno lavorando all’accordo. «Ci stiamo sentendo, stiamo discutendo ma, visto com’è andata con il Pd, finché non sono depositati i simboli non mi sbilancio», dice Calenda alla Stampa. In ogni caso, il leader di Azione spera che il terzo polo nasca. «Ci sono tutte le premesse per farlo, perché con Italia Viva siamo vicini dal punto di vista programmatico. Poi c’è da accordarsi su come organizzare la campagna elettorale, su chi parlerà per la coalizione, oltre ovviamente ai collegi. Stiamo lavorando, ma è pur sempre un incontro tra forze politiche che hanno fatto scelte diverse nel recente passato: loro sono stati al governo con il Movimento Cinque stelle, noi no».
Le questioni da dirimere riguardano la spartizione delle candidature e la leadership. E si starebbe facendo strada l’idea di un ticket Carfagna-Bonetti.
Ma sulla convivenza tra due personalità come Renzi e Calenda c’è ancora un grande punto interrogativo. «Quando eravamo insieme al governo litigavamo continuamente, con lui poteva funzionare solo attraverso un confronto tosto e, infatti, abbiamo fatto cose buone. Ma quello che conta ora sono le scelte e i progetti politici, non il carattere», racconta Calenda.
Ora, per prendere i voti dei moderati serve il terzo polo. «Non è solo necessario, è fondamentale. Se noi non ci fossimo, si creerebbe un vuoto enorme per gli elettori moderati e nessuna possibilità di sottrarre voti alla destra», dice Calenda. L’obiettivo è la non vittoria della Meloni. «Lo abbiamo sempre detto, del resto eventuali governi di centrodestra o centrosinistra, con queste alleanze, non reggerebbero un giorno». E «sperando che i cittadini ci diano i voti sufficienti, è arrivare a una maggioranza Ursula, costruendo una coalizione larga che chieda a Mario Draghi di rimanere a palazzo Chigi».
Calenda dice di non aver parlato con Draghi. «Non mi permetterei mai. Lo vedremo dopo, intanto pensiamo a non far vincere la destra. E, se non vince, credo che si dissolverà, a cominciare dalla leadership di Salvini e da quello che resta di Forza Italia. Così potrà crearsi un’area popolare che manca in Italia, ma che già esiste in Europa».
Nessuna politica dei due forni dopo le elezioni, assicura Calenda. «Perché c’è un forno, quello sovranista, che è estremamente pericoloso. Ho calcolato che finora il centrodestra ha fatto promesse che valgono 200 miliardi di euro, dalla flat tax al resto. Berlusconi credo sia al quinto miracolo italiano, roba che neanche Gesù Cristo. Noi siamo all’opposto, per le cose concrete da fare e per il metodo Draghi, saper dire dei sì e dei no netti».
Eppure non c’è un pericolo di emergenza democratica se vincono a destra. «Ma c’è un rischio di declassamento dell’Italia, da grande Paese europeo a piccolo Paese emarginato», dice. «La situazione è difficile, abbiamo un debito monstre, rischiamo di andare a gambe all’aria. E aggiungo che Giorgia Meloni dovrebbe dire parole chiare sul fascismo, perché non può presentarsi in Europa in modo credibile senza aver risolto la questione. L’alleanza con Orban non ci porta solo in serie B, ma anche fuori dai tavoli dove si decidono i fondi del Pnrr e i dossier più importanti».
E la vittoria di Meloni non è scontata. «Non c’è niente di scritto, proprio perché c’è un ampio mondo moderato che non vuole votare a destra o a sinistra e aspetta una proposta alternativa di buon senso. Meloni va battuta sul terreno del proporzionale, al Senato. Io mi candiderò lì e andrò in Veneto, dove ho preso un fracco di voti alle Europee, andrò in Lombardia, nelle valli dove votavano la Lega e ora la gente non li vuole più sentire. Andrò porta a porta a spiegare alle persone che votare quelli significa portare al disastro l’economia e la società italiana. La mia sarà una battaglia strenua, peccato non possa farla con Letta».
Calenda rimpiange alla fine la mancata alleanza: «Bastava che Letta avesse il coraggio di accettare la sfida riformista, facendo fare al Pd la sua parte a sinistra. Peccato, perché io e lui, spalla a spalla, potevamo vincere», dice.
Con Renzi, ora, non sa dove arriverà. «Noi come Azione vogliamo fare un’operazione simile a quella di Roma, puntando su temi concreti. Nella corsa al Campidoglio, all’inizio, ci davano al 6%, poi abbiamo preso il 20%».