La foresta bruciaL’estate torrida in cui dei turisti inconsapevoli diventarono rifugiati climatici

Nell’ultimo romanzo di Jens Liljestrand, edito da Mondadori, i protagonisti si ritrovano a dover fare i conti con gli incendi devastanti nella campagna svedese. Cosa succede quando la crisi climatica si aggrava al di là dei nostri peggiori incubi?

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Il sole non è ancora sorto, ma all’orizzonte l’alba sta già colorando di rosso il cielo e il mare morente. Sono seduto da solo su una roccia, proprio come quasi ventiquattr’ore fa. Ma in quel caso l’orizzonte era nascosto da boschi di pini e abeti, rocce e case. Adesso mi trovo ai limiti dell’arcipelago e a interrompere la visuale ci sono solo scogli isolati e scabri e isolotti che brillano e luccicano nella bonaccia. La superficie dell’acqua è liscia e lattiginosa e riflette il cielo bianco-grigiastro e le nuvole leggere bordate di rosa che presto verranno spazzate via dal caldo.

Il Mar Baltico sta morendo, è un fatto confermato da osservazioni scientifiche; quasi centomila chilometri quadrati di fondale marino hanno già un livello di ossigeno pari a zero. È altrettanto vero però che è di una bellezza celestiale. È altrettanto vero che sono giovane, sano, forte e pieno di vita.

Se solo riuscissi a essere felice, penso per la miliardesima volta. Felice di esistere. Di essere seduto qui, da solo in quest’alba di fine estate nell’arcipelago. Se solo riuscissi a essere grato.

L’isolotto sul quale sono seduto si trova a nord dell’insieme di isolotti rocciosi piatti e per lo più spogli denominato Stora Nassa. La cosa speciale quando si attraversa l’arcipelago, partendo dalla costa e andando verso il mare aperto, è che si può assistere all’emersione delle terre al contrario. All’inizio ci sono alture, boschi, case, canneti, colli. Poi a poco a poco le isole si fanno più rade, più piatte, più sottili, da enormi formazioni di terra si trasformano in frammenti, galassie di granelli sparsi. E ancora più oltre diventano rocce frustate dal vento che a malapena riescono a emergere dalle onde. E poi più nulla.

Devono averlo visto succedere. Qualcuno di loro, di quelli che da generazioni vivevano sul mare, col tempo fu testimone di come l’acqua lentamente si ritirò, apparvero rocce sconosciute, poco alla volta il fondale diventò visibile, i posti in cui gli antenati pescavano salmoni e merluzzi e trote salmonate si trasformarono in pozze fangose dove vivevano soltanto le anguille. Questo cambiamento a molti dovette apparire terrificante, molti avranno maledetto la magia, la stregoneria, gli dei che rubavano loro il mare.

Qualcun altro ci vide un’opportunità. I più scaltri fecero in modo di entrare in possesso della costa, comprando, conquistando, ricevendo doni di nozze. Le spiagge si allargarono, i pascoli aumentarono, scogli e isolotti si fusero creando isole dove si potevano costruire porti, quando ampie lagune e corsi d’acqua vennero chiusi e modificati, si crearono nuovi luoghi d’incontro e nuove rotte, lingue di terra e penisole che consentivano di obbligare le imbarcazioni e i mercanti a pagare dazio sia che fossero diretti verso o provenissero dalle ricche città quasi leggendarie che si trovavano sull’altra sponda del mare, e con quei dazi inizialmente vennero costruite le chiuse, e poi città che prosperarono come parassiti sulle ricchezze di altre città straniere e volevano eguagliarne il potere granitico. Si accorsero dei cambiamenti e presero il controllo sulla natura e sulle altre persone, si ersero a signori di tutto, rendendo schiavo il resto del mondo.

Perché è la capacità di adattamento degli esseri umani a creare la sofferenza più grande. Se fossimo stati un’altra specie animale, semplicemente ci saremmo estinti e sarebbe andata bene così. Adesso bruciamo le foreste pluviali per coltivare germogli di soia, costringiamo bambini-schiavi a lavorare nelle miniere di cobalto per produrre batterie più economiche per le nostre auto elettriche, ci affolliamo in paesi che sembrano discariche nell’assurda ricerca di più vita.

È un pensiero brillante, dovrei scriverlo, ma nel momento in cui formulo queste frasi, il pensiero scompare e i primi raggi del sole fanno capolino all’orizzonte.

Ho veleggiato fino a questo punto estremo dell’arcipelago passando accanto a isole spente, senza corrente, guidato dal GPS a batterie e dalla luce dei fari, per fortuna alimentati da pannelli solari. I quattro attivisti – così si definiscono – erano spaventati, congelati e non avevano i vestiti adatti, per cui mi sono preso cura di loro, ho lasciato che conducessero la barca mentre prendevo qualche dolce, preparavo il caffè e scaldavo zuppa di mirtilli in polvere che ho trovato da qualche parte. Ora dormono, quello alto e la ragazza nella cabina di papà, gli altri nella mia, ho ormeggiato da solo vicino a un isolotto piatto, brullo, nell’alba nitida e vuota, dovrei essere stanco morto e invece stranamente sono sveglissimo, dal mio cervello annebbiato scaturisce una sensazione di libertà e trionfo e avventura.

Se solo riuscissi a essere felice. Perché questa è sicuramente la cosa più cool che abbia mai fatto.

Il primo a svegliarsi è il più basso dei quattro, quello con i capelli lunghi che credevo fosse una ragazza. Sbuca dallo sportello, si guarda intorno sbattendo le palpebre e poi mi raggiunge con un salto sorprendentemente agile da prua. Mi sono portato un thermos di caffè e un pacchetto di knäckebröd, il ragazzo – in effetti è più vecchio di me, ma non so perché mi sembra più giovane – sgranocchia affamato il pane croccante.

«Non sapevo che qui fosse così» dice. «Bellissimo, davvero.»

Il mare è ancora lucido, ha assunto una tonalità grigio acciaio con pennellate di argento e blu, ma l’orizzonte comincia a tingersi di giallo e violetto e una debole brezza fresca increspa la superficie; per la prima volta dopo tanto tempo sento che mi farebbe piacere indossare giacca e cappello.

«Non sono mai arrivato così lontano nell’arcipelago» prosegue. «Credevo che ci sarebbe stata più gente, che fosse pieno di pontili e moto d’acqua e supernavi da crociera, invece è completamente deserto. Non c’è un’anima.»

«È selvaggio, in un certo senso» concordo. «Desolato. Un tempo qui si formava il ghiaccio, immaginati questo posto coperto di neve e ghiaccio, come un enorme deserto bianco, piatto.»

«Ghiaccio?» Il ragazzo ha un’aria interrogativa. «Sul mare?»

«Ho visto delle immagini. Le persone si spostavano in grandi gruppi, per chilometri da un’insenatura all’altra, intorno alle isole, qualcuno si portava in spalla una vela simile a quelle che si usano per fare windsurf, altri invece andavano con una vela su ghiaccio, sembra qualcosa di magico.»

Lui aggrotta la fronte.

«Quanto tempo fa?»

Faccio un’alzata di spalle.

«Non lo so. Cent’anni. Cinquanta. Comunque prima che nascessimo noi.»

«Ti fa arrabbiare?»

«Che cosa?»

Una folata fa dondolare la barca. Oggi ci sarà vento, da sud sud-ovest. Il ragazzo si scosta dal viso una ciocca dei suoi lunghi capelli.

«Che qui non si formerà più il ghiaccio» risponde. «Chenoi non lo vivremo mai. E nemmeno i nostri figli. Diventerà una leggenda. Come Atlantide o come la vacca marina, il dronte, il tilacino. Persi per sempre.»

«No» rispondo piano guardando il mare. «Non sono arrabbiato. Triste, forse.»

In lontananza sento lo stridio lamentoso di un gabbiano, prima debole, poi più forte.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“La foresta brucia sotto i nostri passi”Jens Liljestrand, Mondadori, 515 pagine,  12 euro 

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