Come funziona un’illuminazioneIl metaverso è come un sorso di caffè davanti a un’opera di Jeff Koons

Tra byte e blockchain, gli artisti che lavorano da sempre attraverso la fantasia applicata alla realtà stanno esplorando nuovi mondi che sono accelerati dalla tecnologia e alimentati dall’immaginazione

di Çağlar Oskay, da Unsplash

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A distanza di pochi mesi dall’inizio della pandemia, nell’estate del 2020, ho guardato i miei figli giocare a un videogioco. Era Animal Crossing: New Horizons, il popolarissimo titolo di Nintendo che ha conquistato i fan con la sua grafica distintiva e il suo coinvolgente gameplay sociale. In Animal Crossing i giocatori di tutto il mondo possono andare online e convergere in uno spazio digitale condiviso: per mescolarsi, per osservare l’uno le creazioni dell’altro (ogni giocatore ha il compito di sviluppare un’isola vuota) e semplicemente per coesistere.

Mentre il mondo era attanagliato dalla pandemia e i nostri legami sociali iniziavano a erodersi, il gioco offriva una sorta di panacea. Per i miei figli, allora forzatamente rinchiusi in casa, è stato uno spazio virtuale dove poter stare con i loro amici.

Per me è stato un risveglio.

Qui, in questo paesaggio digitale modellato dalla visione creativa e dal coding, ho incontrato quello che oggi molti chiamerebbero il metaverso. È stato un cambiamento sismico nella realtà, sia in ciò che percepivo sia in ciò che potevo percepire.

Sono convinto che gli artisti abbiano la capacità di contribuire a espandere questo campo cognitivo. Lavoriamo in una disciplina che ci spinge costantemente a riconsiderare e a ridefinire la nostra realtà personale: attraverso la fantasia e l’ironia, l’umorismo e l’ingenuità, il commento e il sottotesto. Nel metaverso, l’intrinseca dualità tra realtà e finzione si dissolve, creando un’esistenza iperreale accelerata dalla tecnologia ma alimentata dall’immaginazione che viene da noi.

La promessa di questa iperrealtà ha pervaso e rinvigorito il mio lavoro. Sono passato alla creazione di arte nft, scommettendo sull’idea che questi non-fungible token – dei semplici dati, privi di qualsiasi forma tattile e corporea – rappresentino un nuovo eccitante landscape cognitivo. E mi sono concentrato su un lavoro concettuale che cerca di portare autenticità al metaverso e agli spazi digitali presenti.

L’anno scorso ho collaborato con il marchio di moda virtuale rtfkt Studios a un progetto nft chiamato collezione Clone X, contribuendo con le mie opere d’arte ai loro personaggi 3D, o avatar, resi in digitale. In primavera, dopo una lunga gestazione, ho lanciato il progetto Murakami.Flowers, una collezione di opere d’arte nft che comprende versioni pixelate delle mie opere floreali.

L’impatto di questo fiorente mondo digitale sulla mia arte mi ha spinto a rivalutare la mia realtà personale, ricordandomi di due occasioni della mia vita in cui è crollata la realtà dei valori che avevo.

La prima riguarda un primo incontro con l’arte contemporanea. La seconda riguarda qualcosa di molto più banale: un sorso di caffè. Era il dicembre 1988 e visitavo New York per la prima volta. Alla Sonnabend Gallery di SoHo, rimasi affascinato da alcune grandi opere di porcellana. Una raffigurava un Michael Jackson dorato e dalla pelle bianca che stringeva il suo amato scimpanzé Bubbles. Un’altra raffigurava la Pantera Rosa, il personaggio dei cartoni animati, sulla spalla di una donna modellata sull’attrice Jayne Mansfield, a torso nudo e sorridente. Si trattava di opere dell’artista Jeff Koons. La mostra si chiamava Banality. All’epoca non sapevo che si trattasse della mostra di Koons; in effetti, non sapevo nemmeno leggere l’inglese. Ma ricordo di aver pensato: «Wow, in America, la gente si diverte a comprare porcellane di così scarso gusto per una montagna di soldi. Non capisco affatto l’arte!».

Più tardi avrei letto su una rivista d’arte che Banality era vista come una mostra all’avanguardia che incarnava ciò che alcuni critici chiamavano simulationism – una sorta di iperrealtà di per sé. Alla luce di ciò, quando guardai di nuovo la scultura di Michael Jackson e Bubbles, la mia reazione iniziale – «Che diavolo è questa stupida opera di porcellana?» – si trasformò. Sentivo di capirla: la sua manipolazione della realtà, la sua sovversione del familiare, la sua insensibilità nei confronti di ciò che riteniamo vero. L’incontro con la mostra di Koons mi ha fatto mettere in discussione il mio stesso giudizio.

E quel sorso di caffè?

È successo circa dieci anni fa, in Giappone. La marca di caffè norvegese Fuglen aveva aperto un bar a Tokyo e avevo sentito dire che il caffè era delizioso. Andai a berne una tazza.

Il barista al bancone mi guardò. «Lei è Takashi Murakami, l’artista, vero?», mi domandò. «C’è un tipo particolare di caffè che desidera?».

Chiesi un cappuccino. Me lo portò qualche minuto dopo e ne bevvi un sorso. Quasi lo sputai.

«Mi scusi, ha messo del succo d’arancia qui dentro?», chiesi. Il barista sorrise. «Murakami-san, come previsto, lei è piuttosto sensibile», disse. «È vero, perché in realtà i chicchi di caffè sono frutti. Scommetto che quello che ha bevuto fino a oggi è un caffè giapponese a tostatura molto scura. È una tostatura scura perché i chicchi sono vecchi. Il caffè fresco è frutta. Vuole provare a bere un altro sorso pensando a questo?».

Così ho bevuto di nuovo. In quel momento la mia coscienza ha fatto click e si è ristrutturata. Non ho mai bevuto un caffè così buono, ricordo di aver pensato.

In entrambe le esperienze, il mio cervello è stato ingannato. Le mie convinzioni sono state messe in discussione. I miei paradigmi sono cambiati. Non esiste alcun modo per sapere se le mie impressioni iniziali fossero il risultato della mia ignoranza o se la conoscenza acquisita mi abbia portato alla verità. Sembrerebbe che lo scopo ultimo di entrambi i momenti non fosse quello di arrivare a risposte chiare. Lo scopo era invece quello di porre domande e di farmi riconsiderare i miei principi. In altre parole: riconoscere l’inconoscibilità di qualcosa è, di per sé, una realtà e una verità. Sapevo di essermi risvegliato.

È lo stesso tipo di risveglio con cui mi confronto ora, quando mi addentro in questo nuovo universo digitale che fonde la tecnologia con l’arte, l’umanità con l’algoritmo, i dati con la sostanza. La mia speranza è creare una visione che fonda il mondo dell’arte contemporanea – la sfera che ho abitato finora – con il mondo digitale. Così come l’arte ci ha sempre spinto a espandere e a riformulare i nostri costrutti, lo stesso vale per ciò che appartiene al nuovo mondo tecnologico. Tra byte e blockchain, esso permette al lavoro degli artisti di assumere nuove forme, di esistere in nuovi spazi e di creare nuovi mondi. Questo è il futuro che dipingiamo.

© 2022 THE NEW YORK TIMES COMPANY AND TAKASHI MURAKAMI

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