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La guerra in Ucraina, cioè la guerra in Europa, non poteva non cambiare radicalmente la nostra visione del mondo e la nostra scala di priorità, abituati com’eravamo, noi europei, a dare per scontata una condizione di pace, libertà e benessere praticamente perpetua e apparentemente non controversa, non contesa, non insidiata da niente e da nessuno, come fosse un diritto naturale che tutti ci riconoscevano, che tutti davano ugualmente per scontato.
La guerra in Ucraina, cioè la guerra all’Europa, cambia dunque la nostra percezione della realtà, e tanto più profondamente perché l’invasione decisa da Vladimir Putin arriva al termine di un sommovimento cominciato nel 2016, con Brexit e con l’elezione di Donald Trump (ma anche, per fare solo un altro esempio, con la deriva del separatismo catalano culminata nel referendum illegale del 2017). Un sommovimento che è stato anche una guerra di parole e di percezioni, in parte non irrilevante alimentata e condotta proprio dalla Russia.
La guerra in Ucraina, per l’Europa, è anche un gigantesco traduttore automatico, che illumina retrospettivamente molto di quel che è accaduto negli ultimi sei anni. I massacri, le torture, le deportazioni e tutte le atrocità compiute per ordine di Putin sono la verità dietro le fake news; sono gli uomini in carne e ossa dietro i troll, i bot e la propaganda da cui siamo stati bombardati negli ultimi anni online, in tv e sui giornali; sono l’artiglieria pesante chiamata a finire il lavoro lasciato a metà dagli utili idioti che hanno contribuito a destabilizzare, dividere e indebolire l’Unione europea e l’Occidente.
La guerra è la verità che ci attendeva al termine della post-verità, parola dell’anno 2016, l’anno in cui Trump, in campagna elettorale, invocava esplicitamente l’aiuto di hacker russi affinché trafugassero le email di Hillary Clinton. «Russia, se sei in ascolto, spero sarai in grado di trovare le trentamila email che mancano», dichiarava ad esempio in giugno, in conferenza stampa, riferendosi a uno dei tanti pseudo-scandali montati ad arte dalla propaganda trumputiniana. Per poi aggiungere, significativamente: «Penso sarai grandemente ricompensata dalla nostra stampa». È esattamente quello che accadrà, grazie all’aiuto decisivo di Wikileaks. Aiuto invocato e rilanciato da Trump per tutta la campagna elettorale, senza tanti giri di parole. «I love Wikileaks», dichiara più volte nei suoi comizi.
Come si vede, non c’è mai stato nulla di nascosto, e forse il segreto della post-verità sta proprio qui, nel suo essere, per dir così, una menzogna alla luce del sole. Perché l’obiettivo degli agenti del caos non è convincere, ma dividere, confondere ed esasperare. Per questo la Russia può sostenere contemporaneamente, in Spagna, i separatisti catalani e i nazionalisti di Vox, così come formazioni neofasciste e neonaziste di mezzo mondo, insieme con partiti, gruppi e gruppuscoli di estrema sinistra funzionali alla causa. Ma non può esserci dubbio su dove batta il suo cuore.
La guerra santa lanciata da Putin e dal suo sacerdote Kirill, secondo il quale la guerra in Ucraina è una guerra contro i valori dell’Occidente, rappresentati dalle «parate gay», avrebbe dovuto chiarirlo a chiunque ancora ne dubitasse in buona fede. Le analoghe dichiarazioni di Aleksandr Dugin e degli oligarchi più vicini al Cremlino sono inequivocabili. Sono l’altra faccia del populismo e del sovranismo, di cui Putin in questi anni non è stato solo il principale finanziatore, ma anche il principale punto di riferimento politico e ideologico.
Quale sia l’effetto concreto di tali campagne in Occidente è ben visibile oggi negli Stati Uniti. La politicizzazione della Corte Suprema (per non dire la sua weaponization) va infatti molto al di là della questione dell’aborto. È il tentativo di rovesciare la democrazia liberale dall’interno, attraverso la conquista, il pervertimento e la strumentalizzazione delle sue massime istituzioni, in una direzione che lascia aperte solo due strade: la guerra civile o il modello ungherese. Due opzioni che peraltro non si escludono reciprocamente, come si è visto negli Stati Uniti: fallita la prima opzione, con la campagna sulle «elezioni rubate» culminata nell’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021, si è ripresa infatti la seconda opzione.
Il copione somiglia molto a quello che abbiamo visto all’opera in Ungheria, con l’asservimento graduale di tutti i poteri indipendenti e le autorità di garanzia alla cricca di Viktor Orbán, il principale cavallo di Troia di Putin in Europa. Anche qui, non c’è nulla di nascosto. È il modello della «democrazia illiberale», apertamente rivendicato da entrambi.
Con l’invasione russa dell’Ucraina, una guerra di terrore e di sterminio giustificata esplicitamente con l’intenzione di impedire l’integrazione del Paese in Europa e nell’Occidente, vediamo ora fin dove sono disposti a spingersi i massimi punti di riferimento dell’internazionale sovranista. Nessuno può onestamente dubitare del fatto che all’indomani di un’eventuale vittoria della Russia, nei territori occupati, non si terranno più né libere elezioni né parate gay, e non ci sarà alcuna libertà di espressione, proprio come a Mosca.
Da questo punto di vista, le cose non potrebbero essere più chiare. Motivazioni e finalità delle forze in campo non potrebbero essere più trasparenti. La situazione non potrebbe essere meno complessa di così.
L’assalto putiniano all’Ucraina e l’assalto trumpiano alla democrazia americana non sono solo due facce della stessa medaglia, sono anche la guerra su due fronti che gli antifascisti europei – quelli veri, cioè quelli che combattono contro il fascismo, e non al suo fianco – dovranno affrontare nei prossimi anni. Occorrerà dunque avvisare tanto i liberali sedotti dalle guerre culturali combattute in nome del diritto alla vita quanto i socialisti abbindolati dalla retorica anti-nazista del Cremlino che il fascismo sta da quella parte (per non parlare della morte).
Se Putin dovesse conquistare l’Ucraina e Trump dovesse riconquistare la Casa bianca è assai improbabile che l’attuale assetto delle alleanze politiche e militari all’ombra delle quali abbiamo coltivato la nostra illusione di pace perpetua durerebbe a lungo. Il tentativo di smantellare la Nato e lasciarci al nostro destino di fronte all’imperialismo russo, fallito durante il primo mandato di Trump, potrebbe riuscire nel secondo. Forse allora anche tanti capziosi discorsi sull’opportunità di aiutare gli aggrediti assumeranno un’altra risonanza, persino negli studi dei nostri talk show.