Pochi unicorniIl pesante ritardo italiano nel mercato del venture capital

In questa campagna elettorale i partiti non hanno mai parlato di come creare le condizioni per attirare investimenti a favore delle start up innovative. Eppure sarebbe uno dei pochi rimedi alla delocalizzazione e alla perdita di talenti nel nostro Paese

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Ad ascoltare distrattamente i partiti favoriti alle prossime elezioni sembrerebbe quasi che l’Italia sia invasa dagli investimenti, soprattutto stranieri. Pare che il problema sia addirittura doverli filtrarli, per evitare “sole”, magari con una richiesta di fidejussione sovranista, rivolta solo agli imprenditori extra-Ue. Se il discorso invece si estende al risparmio e ai capitali che dovrebbero generare gli investimenti, l’immaginario prevalente dei partiti è imprigionato nel solito mattone: abolizione o meno dell’Imu sulla seconda casa oppure patrimoniale, come se non vi fossero utilizzi alternativi tra l’accumulo e la tassazione statale.

La realtà è come al solito diversa. Il nostro Paese è in ritardo sull’andamento degli investimenti fissi lordi: nel 2021 eravamo ancora a un livello dell’1,3% inferiore a quello del 2010 e del 10,4% più basso di quello del 2005, nonostante l’imponente rimbalzo post Covid. Germania e Francia hanno superato del 23,2% e del 21,3% i numeri di 11 anni prima, così come la Spagna, di poco più del 3%. Questo ritardo lo si riscontra in quasi ogni ambito: costruzioni (pur in forte ripresa), macchinari o proprietà intellettuale. Mentre in tutta Europa vi è una crescita sostenuta il segno più dell’Italia è meno ampio.

Il Belpaese rimane maggiormente indietro anche nella nicchia di mercato del Venture Capital, della finanza alternativa, delle startup innovative. In molti Paesi è ben più di una nicchia. Ormai non si parla di startup nate in un garage ma di unicorni, ovvero aziende che hanno raggiunto una capitalizzazione di un miliardo di euro, o di soonicorn, ovvero di imprese che unicorni potrebbero diventarlo a breve con i prossimi round di finanziamento.

È un mondo che si sta evolvendo e ingrandendo anche in Italia. Nel primo semestre 2022 gli investimenti di Venture Capital hanno raggiunto nel in Italia i 957 milioni di euro, di cui 286 provenienti dall’estero, contro i 429 milioni dello stesso periodo di quest’anno (dati Aifi). E si è arrivati a 1,1 miliardi considerando le aziende straniere ma con founder italiani in altri Paesi.

Tuttavia per un confronto con altre realtà basta guardare alla Francia che in tutto il 2021 ha attirato 11 miliardi di euro. Iil divario è evidente anche dal numero di unicorni e soonicorn presenti. In Italia sono solo 6, contro i 54 francesi, i 77 tedeschi, i 114 inglesi. Veniamo superati anche da Paesi con un decimo dei nostri abitanti, come la Finlandia (12), l’Irlanda (7), la Svizzera (22).

Dati europeanunicornmap.com, i5 invest, i5 growth, inizio 2022

Oltre a Statispay, le aziende italiane con un miliardo o quasi di valorizzazione sono note agli addetti ai lavori, ma non alla grande massa: Scalapay, Casavo, D-Orbit. Non solo sono poche, ma è anche limitato l’ammontare raccolto: 900 milioni di euro di fondi nel nostro caso, mentre i round degli unicorni e dei soonicorn inglesi hanno generato 32 miliardi, quelli tedeschi 23,6, i francesi 13.  Molto capitalizzate sono state le startup innovative di maggior successo svedesi, che hanno raccolto 11,6 miliardi. Anche qui il Paese europeo a noi più simile, la Spagna, ci supera, con 3,4 miliardi.

Dati europeanunicornmap.com, i5 invest, i5 growth, inizio 2022, migliaia di euro

Nell’ambito del Venture Capital l’Italia sembra più affine all’Est Europa che a quella occidentale. Nel nostro Paese il valore delle aziende tech, le più innovative, che hanno ricevuto fondi di VC, in proporzione alla popolazione è di 700mila dollari pro capite, meno che in Polonia. Il record è svedese, grazie ai suoi unicorni, con 28.900, seguita da Paesi Bassi, 1.800 dollari pro capite, e Svizzera, 18 mila. Le imprese dello stesso tipo francesi e tedesche valgono rispettivamente 4.300 e 5.300 dollari per abitante.

Dati dealroom.co, dati in dollari

Il primo semestre del 2022 è stato positivo per l’ecosistema italiano, ma ha comunque visto solo 18 dollari a testa di investimenti in Venture Capital nel nostro Paese, contro i 40 in Spagna, i 145 in Francia, i 250 in Finlandia, i 300 nel Regno Unito e in Irlanda.

Dati dealroom.co, dati in dollari

Sembra esserci un certo collegamento tra l’incremento degli investimenti dal 2005 in poi e il successo delle aziende finanziate da Venture Capital. I Paesi in cui i primi sono cresciuti di più hanno visto startup più capitalizzate. A fare eccezione sono i Paesi dell’Est in cui gli investimenti sono saliti, ma la produttività rimane ancora bassa, e non ha generato molta innovazione. L’Italia è nella parte bassa della classifica in entrambi gli ambiti, quello del valore delle startup e degli investimenti. E non è un caso.

Dati dealroom.co, Eurostat, ampiezza del cerchio in base al Pil pro capite

Le strade da seguire per risalire la china sono molte. Forse quella più adatta è quella percorsa dai nostri vicini transalpini. La Francia non è mai stata un paradiso del capitale e della finanza, eppure attualmente è tra i Paesi più accoglienti per il Venture Capitale e il Private Equity in Europa. A pesare è stato l’intervento dello Stato, che con Bpi France, una Cassa e Depositi Prestiti potenziata, è stato molto più attivo di quello italiano. Le garanzie, il supporto diretto, gli ingressi nel capitale delle startup più promettenti hanno rappresentato un cambio di paradigma all’interno di una strategia già storicamente interventista.

Lo Stato ha deciso di essere volano, e non freno, e di creare invece che di assistere, aiutando le imprese al decollo invece che, come vorrebbero in tanti nel nostro Paese, salvare solo quelle decotte o impedire la concorrenza.

L’emergere di tanti unicorni, di campioni di innovazione, non è solo un successo da celebrare nei soliti circoli. Si tratta di uno dei modi con cui un Paese riesce a competere, a non rimanere indietro nella globalizzazione. Si tratta anche di uno dei pochi rimedi alla delocalizzazione e alla perdita di talenti. L’alternativa è solo la sterile invettiva xenofoba, la chiusura nel consolante rancore nazionalista.

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