Un anno dopoL’ambasciatore Sandalli racconta l’Afghanistan con i talebani al potere

La situazione sociale ed economica del Paese si aggrava ogni mese di più. E «se continuerà a prevalere l’ala ultraconservatrice che fa capo alla cerchia dell’emiro a Kandahar, il Paese è destinato a diventare sempre di più un rifugio e un punto di riferimento per il terrorismo di matrice islamica», dice. Ma «un contributo alla pressione sulle autorità de facto può arrivare anche dalla diaspora afghana»

(La Presse)

È passato un anno da quando il volo KC767 dell’Aeronautica Militare è atterrato da Kabul a Fiumicino con 74 persone a bordo. Tra loro, c’era anche l’ambasciatore Vittorio Sandalli, cui venne chiesto di rientrare in Italia, prima di stabilire temporaneamente la sede italiana dell’ambasciata a Doha, da cui tuttora opera. E a un anno di distanza da quando i talebani hanno ripreso Kabul, Sandalli racconta ora sulla Stampa lo stato di un Paese che sprofonda nella povertà.

«È stato un momento davvero difficile», ricorda. «Si trattava di lasciare un Paese dove avevo chiesto di essere assegnato due anni prima, quando ancora si sperava che gli sforzi internazionali potessero portare a un’intesa tra le parti in conflitto, i taleban e la repubblica islamica, speravamo che dopo decenni di sofferenze in Afghanistan ci fosse la possibilità di un futuro di pace. L’Italia in Afghanistan aveva sacrificato vite, e aveva portato progresso, sviluppo. Basti pensare a quanto fatto a Herat, in termini di sviluppo sociale, istruzione per le ragazze, infrastrutture, l’Ambasciata a Kabul era diventata un punto di riferimento per le conquiste femminili, organizzavamo convegni, seminari con imprenditrici, esponenti delle istituzioni, con attiviste della società civile, per fare il punto sui progressi compiuti, sulle conquiste raggiunte, sulle prospettive che avevamo davanti a noi. Tutte queste persone avevano creduto in noi, contavano su di noi. E in quei momenti ci stavano chiedendo aiuto come continuano a chiedercelo adesso».

L’ambasciatore spiega che «gli accordi di Doha del febbraio 2020 tra Stati Uniti e taleban prevedevano che a fronte dell’impegno del ritiro delle truppe internazionali le parti in conflitto si impegnassero in un dialogo che si stava svolgendo a Doha, dal settembre 2020. In ritardo, sì, ma c’era un dialogo in corso. Un dialogo che nelle aspettative della comunità internazionale avrebbe dovuto portare a un assetto concordato che da una parte fosse rappresentativo di tutte le componenti etniche e religiose dell’Afghanistan, e dall’altra parte fosse in grado di preservare le conquiste degli ultimi vent’anni, soprattutto nel rispetto dei diritti umani. Noi appoggiavamo e incoraggiavamo questo dialogo però, soprattutto dopo la metà di aprile quando fu confermato il ritiro delle truppe internazionali e con la progressiva avanzata dei taleban, eravamo pronti a tutti gli scenari. Ormai la caduta, anche ravvicinata, della Repubblica, era una possibilità anche se è avvenuta con una rapidità che non tutti avevano previsto».

Ora, un anno dopo, la situazione sociale ed economica dell’Afghanistan si aggrava ogni mese di più. Sandalli ammette che «la preoccupazione è molto forte, soprattutto con l’avvicinarsi del prossimo inverno che sarà il secondo dopo il cambio di regime e porterà nuove privazioni alla popolazione afghana. In primo luogo occorre fare in modo che Unama, la missione delle Nazioni Unite sul campo, aumenti la pressione nei confronti delle autorità de facto, cioè del governo taleban, continuando a sostenere l’inclusione delle minoranze nei processi decisionali e il rispetto dei diritti delle donne». Poi, prosegue, «dobbiamo continuare a stimolare l’influenza dei Paesi della regione, che, anche se animati spesso da interessi divergenti e contrapposti, sono i primi a subire le conseguenze dell’instabilità in Afghanistan quanto a minaccia terroristica, flussi migratori e traffici illeciti». In terzo luogo, «dobbiamo continuare a puntare sulla cooperazione da parte dei Paesi islamici moderati che sono in grado di far emergere le contraddizioni della dottrina intollerante e radicale del movimento taleban, mettendo in evidenza quanto danneggi gli interessi della popolazione e della tenuta del Paese».

Ma il primo pensiero è «evitare una catastrofe ancora peggiore, e per farlo dobbiamo continuare a sostenere la popolazione nei suoi bisogni primari: l’assistenza alimentare e quella sanitaria sempre attraverso le Nazioni Unite e contando sulle ong italiane che continuano a operare sul campo». E da tempo si discute anche della possibilità di «estendere l’aiuto a settori non strettamente umanitari, il sostegno all’istruzione, il sostegno alle microimprese, all’agricoltura, ma tutto ciò potrà avvenire solo quando ci saranno progressi in termini di inclusione delle minoranze e del rispetto dei diritti umani e delle donne in particolare».

Secondo Sandalli, «un contributo alla pressione sulle autorità de facto può arrivare anche dalla diaspora afghana, che per esempio in Italia è formata da persone che erano già nel nostro Paese da prima del cambio di regime e da coloro che hanno raggiunto l’Italia con le operazioni di evacuazione che sono in contatto con le voci residue della società civile che sono ancora in Afghanistan».

In questi 12 mesi, l’Italia ha evacuato non solo i cittadini afghani che erano in servizio nell’agosto del 2021 e le loro famiglie, ma ha continuato e continua a mettere in salvo persone a rischio. Gli aiuti «continueranno nel prossimo futuro e a maggior ragione in vista dell’inverno», assicura l’ambasciatore. «Abbiamo avuto una particolare attenzione per gli studenti. Siamo in contatto con le università che offrono borse di studio agli studenti afghani a cui si aggiungono le borse di studio stanziate dal Ministero degli Esteri»

Kabul, qualche giorno fa, è tornata sulle prime pagine dei giornali per la morte del leader di Al Qaeda Ayman al Zawahiri causata da un drone americano. Secondo Sandalli, questo fatto dimostra «che i legami col terrorismo di matrice islamica non solo non si siano mai interrotti ma sembrano anzi rafforzati». E ora, spiega, «penso che la morte di Zawahiri e la sua presenza a Kabul stiano provocando un confronto interno alle diverse anime dei taleban anche per il timore delle conseguenze sulla già scarsa legittimazione interna che i taleban hanno che deriverà dall’ulteriore isolamento del Paese. Se in Afghanistan continuerà a prevalere l’ala ultraconservatrice che fa capo alla cerchia dell’emiro a Kandahar, il Paese è destinato a diventare sempre di più un rifugio e un punto di riferimento per il terrorismo di matrice islamica».

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