Penetrare l’umanoLa memoria della Shoah oggi e l’inesauribile conflitto delle immagini

Arturo Mazzarella indaga le ragioni dietro alla grande produzione culturale che ha tentato di testimoniare il genocidio di milioni di ebrei. La sua è anche una riflessione sulla temporalità e sulla distanza che frapponiamo ai traumi

Unsplash

Il nuovo saggio di Arturo Mazzarella, La Shoah oggi. Nel conflitto delle immagini, uscito nella collana “agone” curata da Antonio Scurati per Bompiani, prende le mosse da un’interrogazione sulla gran quantità di libri, film, serie tv che continuano a dedicarsi al tema annunciato dal titolo, quasi non si fosse esaurita e non si potesse mai del tutto esaurire, nemmeno con la progressiva evanescenza biografica dei testimoni oculari (aggettivo ben programmatico, come vedremo), la funzione-reperto o testimonianza sull’episodio più violento, osceno, incomprensibile della storia del Novecento. 

La prima impressione potrebbe essere, dietro suggerimento dello stesso autore, quella di una ridondanza: l’ennesimo libro su un tema abusato. Ma l’indagine di Mazzarella si svolge in una prospettiva particolarmente originale, decostruendo passo dopo passo, sulla scorta di plurimi testi-guida (dall’Antelme della Specie umana all’Améry di Intellettuale ad Auschwitz fino a Celan e Sebald, passando inevitabilmente per Levi), l’idea comune e inevitabile di un evento choc e perciò inimmaginabile. 

È invece proprio sull’immagine come risorsa, antidoto, spina (sulla scorta di Elias Canetti) che Mazzarella incentra il discorso sulla Shoah, scandendolo nel primo capitolo in tre momenti dinamici (che torneranno, cioè, in altri punti del discorso) e consequenziali. 

Il primo è come l’immagine del deportato si costituisca nella reciprocità ma anche nell’omissione dello sguardo, conservando una propria autonomia dalla visione coatta, che preluderebbe (vorrebbe preludere, scopriremo) all’omologazione delle “figure” (così venivano chiamati i prigionieri) e all’annientamento individuale. Proprio da quest’autonomia (relativa, ma pur sempre autonomia) deriva una possibilità di aggiramento del negativo storico e del suo (tentato) azzeramento della vita, attraverso la preservazione di ciò che dalla storia (e dalle azioni umane) non dipende (la natura, ad esempio) e continua a esistere anche in mezzo all’orrore (le betulle fuori da Auschwitz). 

L’immagine come “pungolo” è il successivo scatto: pungolo o, per dirla di nuovo col Canetti più volte richiamato dall’autore, «stimolo contrario all’imposizione» e dunque fattore di trasformazione, di mutazione o metamorfosi all’interno del Lager.

In ultimo, l’aspetto forse più interessante perché prevede un rovescio prospettico (ed etico): il ribaltamento dell’ottica del dominio e l’inferenza dello scacco nazista (lo sterminio, cioè, come progetto fallimentare perché i morti, col Fédida citato dall’autore, «non sono mai scomparsi abbastanza«»).  

Si procede, da qui in poi, con una serie di campioni (opportunamente Mimmo Cangiano nella sua recensione uscita su “Le parole e le cose” ha parlato di «metonimie») del discorso indiretto, non testimoniale sulla Shoah: su tutte, il passato “carbonizzato” di Celan e le sue “tracce di cenere” (dai Microliti), che Mazzarella paragona all’autocombustione delle tele di Kiefer. Riferimento più che mai pertinente dopo la recente mostra site-specific al Palazzo Ducale di Venezia, con traduzione visiva ovvero smaterializzazione iconografica dell’incendio che distrusse la città nel 1577. 

L’assunto comune è l’immagine come fattore di dispersione e allo stesso tempo come coagulo, riproposta di frammenti, deposito di tracce e collettore di resti. È propriamente il Celan «che non ha visto nulla ma sa troppo» a incentrare la riflessione in questo punto cruciale del libro, il Celan che sconta la colpa della sopravvivenza al posto di qualcun altro (i suoi genitori, ma tutti i morti della Shoah) e «continua a incunearsi in un passato sempre vivo, tanto da essere intrecciato con il presente, per strapparvi […] qualche mucchio di pietre o una distesa di ombre che vorrebbe riportare, senza abbandonarli più, nei propri versi». 

Da questo breve estratto, tra l’altro, si può notare quello che gli altri recensori non hanno a parer mio finora sottolineato fino in fondo: il tono letterariamente sostenuto, qualche volta finanche lirico, che l’autore di volta in volta adatta mimeticamente non solo, come atteso, al singolo motivo ma anche e soprattutto al genere e allo scrittore che tratta. 

Si passa così dal rigore analitico del primo capitolo, dedicato alla “visione” come strumento di opposizione al potere attivo e fattuale, al secondo che invece approccia il tema plastico della riconversione in immagine dell’indicibile (o dell’ignoto) dalla specola di un esistenzialismo poetico, creaturale, che resta però meditativo e interpretativo e non rinuncia alla filologia: le fonti, la ricezione, la costellazione attesa (Anne Carson su Celan) e quella meno ovvia (Kiefer, appunto, che pure ha dedicato esplicitamente a Celan più di una mostra). Fino all’ultimo capitolo, che giungendo all’iconologica più tipicamente mnestica della ricostruzione attraverso il “museo” (sebaldiano), si fa più asciutto e refertuale (“la faccenda del sopravvivere”). 

L’interesse del libro, in ogni sua parte, resta primariamente creativo: l’immagine finta, cioè rappresentata, elaborata, ricreata è per il critico il vero motivo di interesse, al di là del tema estremo tra gli estremi, quasi come se quest’ultimo volesse ridimensionarsi a uno dei temi possibili in merito alla riflessione estetica, e dunque potesse finalmente essere rivisitato senza l’attitudine ricattatoria (e “ripulita”, hollywoodiana) dei romanzi, dei film, delle testimonianze vittimarie. 

Un’operazione rischiosa, audace e perfettamente riuscita, nell’aderenza storica che non rinuncia alla visione personale (né potrebbe, data la curvatura dell’indagine), attraverso però uno sguardo trasversale, quello più lucido, che non fissa troppo da vicino l’oggetto e ne rimonta gli effetti, le rielaborazioni, le omissioni e le prospezioni, facendo seguito al metodo di Perec (il falso ricordo) e a quello dello stesso Sebald (il prospettivismo). 

Se non il solo atteggiamento possibile, quello più produttivo sul piano estetico-conoscitivo, rispetto a un evento che, alla stregua di Celan, non abbiamo vissuto ma su cui pesa l’eccesso di memoria e di testimonianza proprio mentre si affievolisce, come si notava all’inizio, la viva “presenza” dei testimoni. 

L’immagine è «ripresentazione», con David Freedberg, o, col Didi-Hubermann direttamente convocato da Mazzarella, è quello che è “qui”, nell’adesso, «l’oggetto dello sguardo». Ma di quelle immagini, ossimoricamente “inimmaginabili”, è inutile e improduttivo cercare l’autenticità: vanno manipolate, alterate, proprio «per non tradire la pluralità di significati che portano inscritti al di là della loro evidenza sensibile». 

Quella di Mazzarella è anche una riflessione sulla temporalità, e sulla distanza che frapponiamo a un qualsivoglia trauma: cosa succede, quando non siamo più dentro le cose, le vediamo meglio o peggio? Qui ci soccorre non solo la memoria, con le sue tecniche (su cui i neuroscienziati hanno parecchio insistito proprio attraverso la spazializzazione della mente, negli ultimi anni), ma anche l’après-coup lacaniano, l’idea che il fatto vada preso per la coda, per essere fino in fondo compreso e metabolizzato. 

La questione della prospettiva si dà, nel saggio di Mazzarella, comunque come una questione di montaggio (oltre che di soggettiva): con il Farocki di Respite «il senso di un evento dipende dalle condizioni di visibilità», al contrario di Claude Lanzmann, per il quale la distanza nulla può aggiungere al “sigillo” della compiutezza. 

Come si sarà compreso, il viaggio attraverso le immagini in questo libro riassetta lo scarto tra posizioni apparentemente inconciliabili: il conflitto è nella stessa ispirazione iniziale, l’attrazione-repulsione di fronte al macabro sovrabbondare di documentazione più o meno narrativamente o cinematograficamente adattata. Procedendo con la lettura, si scopre che la vulgata dell’interdetto adorniano sulla poesia (e più in generale sulla letteratura finzionale) dopo Auschwitz si può rovesciare nel suo contrario: non si parla d’altro che di Auschwitz, quando si vuole penetrare, occhi negli occhi, l’umano.

X