Le acque reflue verranno riciclate e finiranno nei rubinetti delle case. È questa la direzione verso cui sta puntando il Regno Unito per risolvere la crisi idrica. La proposta, in modo prevedibile, ha fatto storcere il naso a molti. Le acque reflue, infatti, altro non sono che le acque di scarico: quelle che vengono usate in casa, ma anche nelle industrie e nell’agricoltura, e che vengono poi eliminate con tutte le sostanze organiche e inorganiche che si portano dietro.
James Bevan, amministratore delegato della Britain’s environment agency, ha messo in chiaro che quella del riciclo delle acque reflue è una procedura «perfettamente sicura e sana» e che bisogna essere «meno schizzinosi»: di fronte all’eventualità (più che probabile) di estati sempre più siccitose, un’economia circolare delle acque reflue appare come una prospettiva auspicabile. A ottobre varie aziende inglesi presenteranno delle proposte in merito al riciclaggio delle acque reflue per il consumo umano e i diversi progetti saranno poi al centro di una consultazione pubblica a novembre.
Una tecnologia nota da decenni
Il Regno Unito non si sta addentrando in un territorio inesplorato. Tutt’altro: il riciclo delle acque reflue per il consumo umano è già realtà in Australia, a Singapore (dove il 40 per cento della domanda è soddisfatta da acque di scarico riciclate, ma si punta al 55 per cento entro il 2060), in Namibia e in alcune zone degli Stati Uniti.
Uno degli impianti più grandi al mondo è il Groundwater replenishment system (Gwrs) e si trova proprio in California. È in funzione dal 2008: grazie a un avanzato processo, che consiste in tre fasi di depurazione e dura circa un’ora, le acque di scarico vengono rese perfettamente potabili, tanto che superano gli standard federali e statali. Un impianto di questa portata è in grado di riciclare ogni giorno 378 milioni di litri (dato riferito al 2015), una quantità capace di soddisfare il fabbisogno annuale di 850mila persone. L’intenzione della California è quella di proseguire su questa strada: nel 2021 il governo statale ha stanziato 5,1 miliardi di dollari da destinare al riuso delle acque e al contrasto alla siccità.
Quello di Windhoek, capitale della Namibia, è stato invece il primissimo impianto al mondo di questo genere: sorto nel 1968, oggi rifornisce di acqua potabile circa 350mila abitanti di una delle aree più aride dell’Africa, in cui i millimetri di pioggia sono solo 250 all’anno.
Come funzionano i processi di depurazione
Esistono varie procedure e tecnologie per depurare l’acqua e molto dipende dal risultato che si vuole ottenere, cioè da quanto deve essere elevata la qualità del prodotto finale. La maggior parte degli impianti al mondo svolge una depurazione minima, se l’acqua deve essere semplicemente reimmessa in natura senza rischi ambientali, o in più fasi, se invece si punta a riutilizzarla in qualche attività umana: nell’agricoltura, ad esempio, oppure nell’irrigazione delle aree verdi, negli scarichi domestici, nei processi industriali, nell’edilizia, nei laghi artificiali e via dicendo.
Quando le acque reflue devono essere riciclate al punto da diventare adatte al consumo umano, allora il processo di depurazione è più lungo, controllato e articolato. Se ne è occupata anche la Nasa: negli anni del programma Apollo, mentre si cercava di mandare i primi esseri umani sulla Luna, l’agenzia ha messo a punto un sistema sicuro ed efficiente per eliminare batteri e sostanze nocive dall’acqua a bordo delle navicelle spaziali, così da renderla potabile per gli astronauti. Il tutto avveniva grazie a un dispositivo di circa 250 grammi che si basava sull’uso di ioni di rame e argento. Previa autorizzazione della Nasa, il sistema è stato poi riadattato per l’ambito civile dall’azienda Carefree Clearwater.
Il processo di depurazione usato nel già citato Gwrs prevede tre passaggi: microfiltrazione, che elimina batteri, microrganismi e solidi sospesi; osmosi inversa, che toglie sostanze organiche, prodotti farmaceutici e sali; disinfezione a raggi ultravioletti, che distrugge tutti i virus rimasti. Infine, vengono aggiunti sali minerali. Altri processi analoghi prevedono, dopo una prima depurazione di massima, l’aggiunta di batteri “amici” che smaltiscono i rifiuti organici più piccoli e poi micro-filtraggio, disinfezione e desalinizzazione. Talvolta l’acqua riciclata potabile così ottenuta viene diluita con acqua potabile non riciclata: non è necessario, ma migliora la percezione dell’utente finale.
Rischi e benefici: lo scoglio è (anche) psicologico
Proprio l’aspetto psicologico, infatti, non è secondario. È già capitato (negli anni Novanta in California e nel 2006 in Australia, ad esempio) che le popolazioni locali, le cui preoccupazioni venivano esacerbate dai media e dalla politica locale, si opponessero a impianti di riciclo di acqua per il timore di rischi per la salute o perché erano semplicemente disgustati dall’idea. Anche per questo gli esperti spesso contestano l’uso di espressioni disturbanti per riferirsi all’acqua riciclata, come “toilet-to-tap”, ossia “dal WC al rubinetto”.
Come ricorda Nature, lo scetticismo della popolazione sulla salubrità dell’acqua potabile non è del tutto infondato, specialmente dopo casi come quello di Flit, cittadina del Michigan in cui per circa un anno e mezzo, tra il 2014 e il 2015, è stata distribuita acqua potabile, presa da un vicino fiume, con percentuali tossiche di piombo. L’accaduto è reso ancora più clamoroso dal fatto che da subito i cittadini si sono lamentati del cattivo odore, gusto e colore dell’acqua, ricevendo dalle autorità rassicurazioni evidentemente false.
Proprio alla luce di questi precedenti, la maggiore diffusione dell’impiego di acqua riciclata – una prospettiva che appare inevitabile, considerando che entro il 2030 la domanda di acqua potrebbe superare del 40 per cento le risorse idriche mondiali disponibili – non può prescindere dal traino di una chiara volontà politica e di un’efficace e trasparente campagna informativa. Al momento, comunque, l’acqua riciclata potabile è assoggetta a regolamenti e controlli più rigidi rispetto a quelli riservati all’acqua potabile non riciclata, e alcuni studi microbiologici a lungo termine ne hanno confermato la salubrità.
I benefici del suo utilizzo riguardano prima di tutto il risparmio di risorse idriche preziose, il contrasto agli sprechi e la salvaguardia delle fonti idriche naturali, ma ci sono anche vantaggi economici. Al di là dell’investimento iniziale per la costruzione dell’impianto (il Gwrs californiano è costato 480 milioni di dollari), l’acqua riciclata ha un costo inferiore rispetto a quella non riciclata ed è molto più economica anche della desalinizzazione, un’altra via percorribile, per lo meno nelle zone costiere, per far fronte alla siccità.
E in Italia?
In Italia, come altrove, esistono già impianti adibiti alla depurazione delle acque reflue: non la rendono potabile, ma abbastanza pulita da essere reimmessa nell’ambiente oppure riusata in ambito irriguo, civile e industriale: gli unici attualmente consentiti dalla legge. Nel 2018, secondo i dati dell’Agenzia europea dell’ambiente, l’Italia trattava il 56 per cento delle acque reflue, contro una media europea del 76 per cento.
Oggi sembra esserci una diffusa consapevolezza riguardo la necessità di aumentare i sistemi di riciclo delle acque reflue, specialmente nel Sud Italia, dove le risorse idriche disponibili spesso non sono sufficienti a soddisfare la domanda. Anche il Regolamento Ue 2020/741 – premettendo che crisi climatica, siccità e condizioni meteo imprevedibili stanno «contribuendo in misura significativa all’esaurimento delle riserve di acqua dolce dovuto all’agricoltura e allo sviluppo urbano» – incentiva a sviluppare e promuovere il più possibile il riutilizzo delle acque reflue adeguatamente trattate, auspicando inoltre un maggiore sostegno alla ricerca e allo sviluppo in materia.
L’idea di riciclare acque reflue per il consumo umano, però, al momento non sembra neanche all’orizzonte in Italia. Tra l’altro, sebbene l’acqua del rubinetto sia controlla e il suo consumo sia sempre più diffuso sul territorio nazionale, già così sul tema c’è ancora un certo scetticismo: secondo un report Istat del 2018, il 29 per cento delle famiglie (nel 2002 era il 40 per cento) «non si fida» e preferisce le minerali in bottiglia.