La maggior parte di noi sa che la crisi climatica è un problema urgente, e ne conosce le cause e le conseguenze. Eppure, non sono ancora abbastanza coloro che hanno scelto di adottare, o di farlo al massimo delle proprie possibilità, dei comportamenti davvero utili a contrastare l’emergenza. La spiegazione, ci dice la psicologia, è da cercare (anche) dentro di noi, in quelle barriere psicologiche che ci impediscono di agire. Robert Gifford, professore di Psicologia e Studi ambientali all’Università di Victoria, in un suo studio del 2011 le ha chiamate «i draghi dell’inazione».
A tal proposito, ci sono almeno tre premesse necessarie. La prima: queste barriere psicologiche non sono una faccenda esclusiva dei negazionisti climatici. Avendo a che fare con il funzionamento del cervello, riguardano tutti noi, chi più e chi meno.
La seconda: non sono un alibi, una scusa per l’autoassoluzione. Al contrario: conoscerle può aiutarci a superarle. Anche Gifford suggeriva che gli psicologi dovrebbero collaborare con scienziati, tecnici e responsabili politici proprio a questo scopo.
La terza, la più importante: non dobbiamo immaginare queste barriere come dei monoliti inscalfibili al di fuori di ogni contesto. «C’è un’interazione molto forte tra le modalità di funzionamento della mente umana, quelle che stiamo chiamando barriere psicologiche, e il modo in cui la società complessivamente gestisce la problematica della crisi climatica. Le dimensioni sociali, economiche e politiche sono assolutamente fondamentali e sono intersecate al modo in cui le persone percepiscono il tema», ci spiega Bruno Mazzara, professore di Psicologia sociale all’Università La Sapienza di Roma.
Deal with it: il cervello antico e i limiti del sistema cognitivo
Quando si parla di crisi climatica, la prima barriera psicologica è la difficile percezione dei rischi reali. «Il nostro cervello è il prodotto di alcuni milioni di anni di evoluzione e ha raggiunto il picco massimo nel Paleolitico: da allora sono passati solo diecimila anni, che non sono nulla in termini evolutivi. Ci troviamo quindi in un certo senso con un cervello del Paleolitico in un mondo che è distante anni luce», spiega Mazzara. «Siamo programmati per percepire e reagire a rischi vicini, immediati e improvvisi. Il cambiamento climatico è invece qualcosa di graduale e, soprattutto, di lontano nel tempo e nello spazio»
Questa distanza percepita in realtà è stata decisamente accorciata dal crollo sulla Marmolada e dalla crisi idrica. «In un seminario che ho tenuto recentemente, ho iniziato mostrando una foto del Po in secca con la scritta “Finalmente la siccità in Italia”», prosegue Mazzara. «Finché vediamo il deserto africano o il ghiacciaio che si scioglie in Groenlandia, abbiamo la percezione che siano problemi lontani. Se invece le cose accadono qui e ora, l’effetto di percezione del rischio è potenziato».
Un’altra barriera psicologica riguarda l’incapacità di «concettualizzare relazioni di tipo sistemico»: è uno dei limiti del nostro sistema cognitivo. Il punto è che funzioniamo benissimo quando abbiamo a che fare con relazioni di causa-effetto, mentre facciamo fatica con quelle più articolate e interconnesse, dove ogni cambiamento in un certo ambito si riflette in maniera molto complessa e spesso imprevedibile in altri.
Prosegue Mazzara: «La natura è un organismo sistemico estremamente complesso e noi non siamo attrezzati per capirlo. I limiti del sistema cognitivo ci portano invece a semplificare, a ragionare per stereotipi e categorizzazioni. Prendiamo il mondo a pezzi». Per questo motivo la crisi ambientale viene presentata e pensata come se ci fossero tanti problemi indipendenti: l’acqua che scarseggia, i rifiuti, l’inquinamento del mare, i ghiacciai che si sciolgono, l’acidificazione degli oceani, la perdita di biodiversità, il salto di specie.
In realtà è sempre lo stesso identico problema e la causa è sempre l’attività umana
Cambiare le nostre attività (le abitudini, i comportamenti, gli stili alimentari…) non è facile, però, nemmeno quando si desidera farlo o si è consapevoli della necessità. «Pensiamo di essere dei decisori razionali, ma in realtà agiamo molto spesso sulla base di reazioni automatiche, abitudini, inerzia.Abbiamo difficoltà a intraprendere azioni nuove», dice Mazzara.
Il seguitissimo canale educativo e di divulgazione scientifico-umanistica Kurzgesagt lo spiega immaginando il cervello come una giungla: decidere di fare qualcosa, cioè di muoversi attraverso questa giungla, richiede molte energie. Ma le azioni e i comportamenti ripetuti nel tempo diventano tracce, poi sentieri, poi strade asfaltate. Automatismi, abitudini. A quel punto percorrerle è molto confortevole e facile, mentre cambiare – gettarsi di nuovo nel fitto della giungla per aprire una traccia diversa e continuare a ripeterla per evitare che la vegetazione invada di nuovo il sentiero – costa enorme fatica.
Questo discorso vale per il buon proposito di andare in palestra due volte a settimana, figuriamoci per quelle abitudini e inerzie che si accomodano alla perfezione nel nostro stile di vita cosiddetto moderno o occidentale, fortemente ancorato all’idea novecentesca di consumo come sinonimo di prosperità e felicità. Usare la macchina anche per brevi tratti di strada, ad esempio. Mangiare carne ogni giorno, o quasi. Acquistare costantemente nuovi prodotti per stare al passo con le mode, per status symbol, per il pensiero comune che non valga la pena riparare qualcosa se posso averne una versione nuova a un costo (finale, ma non ambientale) ragionevole.
Abbiamo bisogno di un’etica ambientale
Poi ci sono le emozioni: anche loro lavorano profondamente alla base delle nostre azioni. Percepire la paura ci permette di reagire a un rischio immediato, «ma se è eccessiva, rimaniamo paralizzati», spiega Mazzara. «Questa paralisi, nel caso della crisi climatica, diventa inazione: “Tanto non ci posso fare niente”». Sempre a proposito di paura, tra l’altro, un altro problema è che quando si presentano rischi che percepiamo come più gravi e vicini (la pandemia da coronavirus, la guerra in Ucraina, la crisi delle materie prime…), non abbiamo più “spazio mentale” per occuparci di altre minacce.
La paralisi dell’azione può altrimenti essere una conseguenza del rifiuto del senso di colpa: «Se mi viene detto che quello che sta accadendo è colpa mia – perché consumo troppa acqua, perché uso troppo la macchina, perché prendo troppi aerei – mi sento colpevole e posso chiudere la mente alle informazioni di questo tipo, andarne a cercare altre. Un altro tema psicologico importante è infatti quello della dissonanza cognitiva: non posso tollerare psicologicamente di essere consapevole della crisi ambientale ma di non fare ciò che dovrei a riguardo. Quindi, delle due una: o mi convinco che la crisi ambientale non c’è oppure cambio il mio comportamento. Se non posso o non voglio farlo, allora fingo che il problema non esista».
Quali emozioni potrebbero invece stimolare l’azione? «Un tema su cui stiamo lavorando sono le cosiddette emozioni morali, cioè quelle emozioni che fanno riferimento a una dimensione etica universale e caratteristica dell’essere umano nella sua specifica natura di essere sociale. In nome dell’etica gli esseri umani hanno sempre fatto, nel bene e nel male, cose grandissime», replica Mazzara.
Dalle nostre straordinarie capacità di fare e pensare insieme agli altri deriva un set di emozioni sociali che hanno una dimensione etica e motivazionale, anche legata al senso del dovere nei confronti della collettività. Sono quelle emozioni che ci portano a pensare “Non posso farlo, perché non è giusto” o che, come nella cosiddetta etica intergenerazionale, alimentano l’idea che dobbiamo qualcosa a chi verrà dopo di noi.
Ecco, quindi, quale potrebbe essere la leva per vincere le inerzie, le barriere e le resistenze: agire individualmente e collettivamente sulla spinta di un’etica ambientale, pensando che abbiamo il dovere di contrastare la crisi climatica per noi stessi, per gli altri, per il pianeta, per chi non è ancora nato.
Esiste oggi quest’etica ambientale, è diffusa? Non esattamente. «Dal nostro recentissimo passato abbiamo ereditato una specifica immagine del nostro rapporto con la natura, ovvero l’idea di potenza e superiorità dell’essere umano», prosegue Mazzara.
«Questa idea è, a mio avviso, il fondamento del problema. Se noi capissimo che non siamo noi e la natura, ma che noi siamo la natura, allora vedremmo che i danni ad essa sono danni a noi stessi. Occorre una vera e propria rivoluzione culturale e concettuale che parta proprio da questa idea: non siamo in opposizione alla natura, non dobbiamo domarla, ma dobbiamo e possiamo conoscerne e rispettarne le leggi».