Schiavitù volontariaCosì l’Europa si era venduta al Cremlino per avere forniture di gas

Rileggendo gli episodi del passato recente alla luce della situazione attuale, Alberto Clò mette in risalto nel suo libro (Il Sole 24 Ore) l’incredibile leggerezza con cui paesi come la Germania (ma anche l’Italia) abbiano chiuso gli occhi di fronte alle violenze della Russia in nome dell’energia

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È davvero sconcertante osservare che nonostante i fatti della Georgia e i numerosi moniti che si levarono verso l’Europa perché allentasse le sue importazioni del gas russo, queste dopo il 2008 sono addirittura aumentate di oltre il 50% passando da livelli intorno ai 100 miliardi di metri cubi nel 2010 ai 155 miliardi registrati nel 2021. La Russia è diventata così di gran lunga il primo fornitore di energia dell’Europa: col 40% delle sue complessive importazioni di metano, il 25% di quelle di petrolio, il 55% di quelle di carbone, il 20% di quelle di uranio.

Percentuali che Putin aveva saputo guadagnare in un lungo arco di tempo, da quando operava come agente del KGB in Germania, di cui parlava la lingua; stringendo stretti rapporti personali soprattutto col cancelliere Gerhard Schröder. L’8 settembre 2005, una settimana prima delle elezioni che avrebbero portato al lungo cancellierato di Angela Merkel, Schröder firmò con Vladimir Putin il grande accordo per la costruzione del Nord Stream 1 – finalizzato ad aggirare l’Ucraina e indebolire i Paesi dell’Europa dell’Est – suscitando la rabbiosa reazione della Polonia che lo definiva come il «Molotov-Ribbentrop Pipeline» richiamando l’accordo russo-tedesco del 1939 che mirava a spartirsi la Polonia. Varsavia, per anni, per ritorsione, avrebbe votato contro ogni deliberazione europea che richiedesse l’unanimità dei voti dei Paesi membri.

Alcuni mesi dopo Putin nominò l’ex-cancelliere presidente del consorzio che avrebbe costruito il gasdotto suscitando forti reazioni nell’intera Europea. «Il Cancelliere uscente ha venduto la Germania ai voleri del Cremlino» chiosò André Glucksmann mentre Schröder definiva l’amico Vladimir un «impeccabile democratico». Non meno rilevante è stata la sua nomina anche nel board di Rosneft pochi giorni prima dell’invasione della Ucraina. Putin cercò di arruolare anche Romano Prodi per presiedere la società che avrebbe dovuto costruire il South Stream ma l’ex premier rifiutò nonostante i buoni rapporti personali.

Dal punto di vista dei rapporti russo-tedeschi non vi sarà alcuna discontinuità tra i cancellierati di Angela Merkel e Gerhard Schröder. Anzi. Dal 2005 l’interdipendenza sarebbe infatti enormemente cresciuta, non solo ampliando la quota delle importazioni di energia da Mosca su quelle complessive – col 60% per il gas, 34% per il petrolio, 53% per il carbone.

Di grande importanza fu la scelta strategica di Gazprom già alla fine degli anni Ottanta di volersi integrare a valle nella filiera metanifera, distribuendo il gas al consumatore finale anziché cederlo al confine. Quel che gli avrebbe consentito di raddoppiare i margini di profitto. Quando Ruhrgas, il principale operatore metanifero tedesco (poi fusasi con E.ON) rifiutò di farla entrare, Gazprom si accordò con Wintershall, controllata dall’impresa chimica BASF, creando Wingas nella distribuzione finale. Come si è visto, tentò di farlo senza successo anche in Italia, nonostante il rapporto tra Berlusconi e Putin.

Il massimo di apertura di credito della Germania a Gazprom fu comunque l’incondizionato affidamento di un quinto della capacità di stoccaggio del gas del Paese, primo strumento per la sicurezza energetica, Dovendo poi amaramente pentirsene quando nel 2021 iniziò la manovra di Putin di pressione sull’Europa e il colosso russo non provvide ad alimentare i siti di stoccaggio.

Lo status di “maggior favore” riconosciuto dalla Germania al gas di Putin ha reso ancor più evidente, nei tragici giorni d’oggi, i gravi errori compiuti da Berlino nello scorso mezzo secolo. I convincimenti, in particolare, che la Russia fosse un fornitore e partner affidabile; che il gas non sarebbe mai diventato un’arma di pressione politica; che politica e business potessero rimanere scissi. Errori perpetrati nei tempi più recenti con l’affrettata decisione per ragioni squisitamente elettorali di Angela Merkel nel 2011 di uscire dal nucleare (delle 17 centrali nucleari solo 3 sono ancora in esercizio) seguita da quella del 2018 di uscire dal carbone. Decisioni, l’una e l’altra, che si sarebbero riverberate sulla domanda di gas naturale, stante anche l’insufficiente progredire della transizione energetica verso le rinnovabili, di cui il gas avrebbe dovuto costituire la fonte energetica “ponte”.

Che la prima economia industrializzata d’Europa si sia venuta a trovare in totale balia delle decisioni della Russia, mal si concilia col sentimento di superiorità che specie nei lunghi anni di Angela Merkel la Germania ha avuto verso il resto d’Europa. Della partnership con Mosca tuttavia ne paga oggi maggiormente le conseguenze. Putin va infatti riservando un particolare accanimento all’ex-alleato, col progressivo taglio delle forniture di gas sino ad azzerarle attraverso il gasdotto Nord Stream 1, motivato per necessità di manutenzione. Il ministro dell’Economia Robert Habeck ha definito le decisioni di Mosca come un «attacco economico» annunciando un aumento del livello di allarme per i rischi di interruzione delle forniture russe.

Per circa mezzo secolo il maggior esportatore di gas nel mondo ha rifornito la maggior economia europea destinandole un quinto delle sue complessive esportazioni. In Germania, come in Italia, le relazioni energetiche con la Russia risalivano a un tempo lontano. Da quando nel 1955 il cancelliere Konrad Adenauer avviò i rapporti diplomatici con l’Unione Sovietica cui fece seguito nei primi anni del 1960 un’intesa per la fornitura da parte della Germania di tubature per l’oleodotto Druzhba (“Friendship Pipeline”), suscitando la preoccupata reazione dell’amministrazione Kennedy intenzionata a decretare un embargo, via NATO, a quelle forniture.

Ne seguì invece nel 1970 la storica intesa “pipe for gas” con la Germania che forniva in cambio di forniture di gas delle tubature per veicolarlo dalla Repubblica Ceca alla Baviera, favorita dalla Ostpolitik avviata dalla Germania del cancelliere Willy Brandt con l’Unione Sovietica, che sottintendeva lo scambio tra gas, petrolio, carbone e normalizzazione dei rapporti con la Repubblica Federale Tedesca e gli altri Paesi del blocco orientale. Da allora, la Russia allargava progressivamente la sua sfera di influenza, da un lato, sui Paesi confinanti un tempo satelliti e, dall’altro, sui Paesi europei, come «membro della “famiglia europea” nello spirito, storia e cultura» come ebbe a scrivere Putin, preferendo la via degli “accordi bilaterali”, nella più classica tradizione del divide et impera, a quella di un’intesa globale con l’Unione Europea, forte dell’assenza di una sua coerente politica di sicurezza energetica.

Privi di una qualsiasi parvenza di politica europea, i singoli Stati – specie quelli che acquistavano da lungo tempo gas russo – avrebbero deciso individualmente le loro politiche di approvvigionamento, forti della sovranità riconosciuta dalle normative comunitarie, magari correndo a Mosca «per negoziare da soli il prezzo della propria debolezza».

La difficoltà a forgiare una comune politica energetica interna avrebbe impedito il simmetrico formarsi di una comune politica energetica estera, per l’incapacità dell’Unione, a dire di Jacques Delors, «di esercitare pienamente il suo peso economico, commerciale, politico nelle relazioni con i Paesi produttori e di transito». La conclusione è che gli Stati europei non hanno mai ritenuto che la costruzione di un mercato unico consentisse di rafforzare la loro sicurezza energetica che, oggi come un tempo, reputano di massimizzare agendo individualmente.

In buona sostanza, e questo è il punto dirimente, la sicurezza energetica non è stata mai considerata dagli Stati come un «comune interesse» che richiederebbe uno spirito di solidarietà estraneo alla loro volontà. Con l’amara conclusione che la sfida all’insicurezza energetica deve, dovrebbe, conseguirsi all’interno dei confini europei ancora prima che al loro esterno.

La conclusione che ci sembra di poter trarre è che la dipendenza europea dal gas russo se è riconducibile a ragioni di convenienza economica e di prossimità geografica, lo è anche per ragioni squisitamente politiche. Quel che è confermato, a mio avviso, dal convincimento della Commissione e da tutti i Paesi europei di potersi liberare dalla nefasta dipendenza dal gas russo in tempi relativamente brevi. Che lo si sia capito solo a seguito della guerra a cui stiamo assistendo rende la cosa ancor più incredibile.

Rileggendo il dipanarsi delle vicende russe in campo energetico, specie dopo la salita al potere di Vladimir Putin, non può che sorprendere il fatto che al moltiplicarsi delle sue aggressioni, minacce, ritorsioni – dalle interruzioni delle forniture all’Ucraina nel 2006 e 2009 alla breve ma cruenta guerra in Georgia del 2008 – i Paesi europei non abbiano minimamente cercato di arginare la loro dipendenza energetica, ma che, al contrario, l’abbiano ogni volta innalzata. Una politica che ha finito per accrescere e rafforzare il potere di Putin forte della loro debolezza e accondiscendenza.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

da “Il ricatto del gas russo. Ragioni e responsabilità”, di Alberto Clô, Il Sole 24 Ore, 112 pagine, 16 euro