«Ma qui dentro bisognerebbe buttarci una bomba, cazzo. Mica lavorarci!»
Per un attimo, finalmente, potei godermi il suono limpido della mia voce. Fu una sensazione piacevole, di autentica liberazione. Eravamo in una saletta di montaggio, nel cuore degli uffici televisivi, ma con la porta chiusa dal di dentro.
Manuel si mise a ridacchiare. «Bisognerebbe» concordò, «bisognerebbe…»
Manuel era un giovane montatore assunto con contratto a tempo indeterminato, il che faceva di lui una persona felice. Era nato in Spagna da padre asturiano e madre giamaicana, era mulatto e portava i dread come Bob Marley. Perciò gli volli subito bene. Mi confidò che un suo bisnonno aveva partecipato alla grande rivolta di Oviedo del 1934, quando i minatori avevano preso a fucilate la borghesia in nome del soviet universale. Erano cose che avevo letto sui libri di storia, e a sentirle raccontare lì mi vennero i brividi lungo la schiena. Certo, se la nostra televisione fosse esistita nel 1934, noi saremmo stati tra quelli che si sarebbero presi delle giuste schioppettate.
Manuel era decisamente di sinistra, ma era una di quelle persone che pretendevano di poter scindere la vita lavorativa dalle proprie convinzioni personali. Faceva ciò che gli veniva chiesto, gli sembrava corretto così e tutto filava liscio. Era senza dubbio un gran lavoratore.
Quel giorno mi mostrò alcuni degli ultimi servizi che aveva montato. Uno in particolare mi lasciò di stucco. Era stato girato in un quartiere multietnico di una grande città del Sud Italia. Il giornalista, con la troupe al seguito, si intrufolava in un caseggiato fatiscente, dove alcuni anziani si lamentavano della presenza degli immigrati e della sporcizia. La telecamera indugiava a lungo sui cumuli di spazzatura sparsi nel cortile, poi il reporter iniziava a braccare gli extracomunitari. Li inseguiva fin sulla soglia degli appartamenti, gridando loro domande idiote sullo spaccio di droga e altre presunte attività illecite.
«Questa la chiamiamo musica tensiva» mi informò Manuel stoppando il servizio.
«Eh?»
«Musica tensiva. Serve a sottolineare la drammaticità del pezzo. Qui da noi la usiamo parecchio».
Era la stessa musica inserita nel mio servizio sul reddito di cittadinanza, e somigliava molto a quella che avevo notato nel servizio sui minimarket asiatici del collega Tizio. Evidentemente li producevano tutti con lo stampino.
«Ma che c’è di drammatico in questa roba? Voglio dire, ci sono quattro vecchi razzisti, un po’ di pattume in un cortile e un tizio che tampina la gente su per le scale».
Manuel scoppiò a ridere. «E tu non sai che fatica trovare gli unici quattro razzisti del circondario! Quello lì è un quartiere di compagni, tutta gente per bene. Su dieci interviste abbiamo dovuto buttarne via otto, cazzo. È stato un bordello che non ti immagini».
«E perché?»
«Ma perché la gente difendeva gli immigrati, ovviamente. Il giornalista ha dovuto girare come un matto, con Ginevra impazzita che lo chiamava ogni cinque minuti. Era il servizio d’apertura della puntata, mica poteva saltare».
«E quelle altre voci? Le avete cestinate tutte?»
La mia domanda dovette suonare piuttosto ingenua, perché Manuel mi lanciò uno sguardaccio a metà tra il sorpreso e l’impietosito.
«Ma tu hai capito che televisione facciamo qui?» chiese secco.
«Be’, grosso modo…»
«Questa è televisione politica» sbottò. «Noi cavalchiamo l’elettorato di destra. Gli immigrati sono cattivi, gli zingari rubano e il sindacato si frega i soldi pubblici. La gente che ci guarda questo vuole, e noi questo le diamo».
«Ma è uno schifo» mi lasciai sfuggire.
«E lo dici a me, cazzo, che sono pure mezzo negro?»
Ben presto scoprii che quasi tutti i montatori erano come Manuel, e anche molti tecnici e persino qualche giornalista. Ovviamente non credevano a una virgola di ciò che facevano: crederci sarebbe stato da folli, vedendo ciò che accadeva nel dietro le quinte. Lo facevano e basta, con lo stesso grado di coinvolgimento emotivo di un operaio mentre aziona la pressa. La loro era una forma di sopravvivenza mentale, e il fatto che fosse dichiarata e condivisa rendeva il tutto molto più semplice.
Manuel mi spiegò poi alcune altre cose che dovevo sapere.
Ad esempio la questione delle piazze. Il nostro era un programma che pretendeva di parlare al popolo – qualsiasi cosa ciò volesse dire –, perciò venivano allestite le piazze. C’era un giornalista in diretta e attorno a lui alcuni cittadini ai quali veniva data la parola durante i collegamenti con lo studio. I cittadini erano sempre più o meno incazzati, e in genere prendevano a male parole i politici ospiti della puntata. L’effetto era notevole, sembrava che alla gente comune venisse finalmente data la possibilità di spernacchiare il potente di turno. Di fatto, i confronti con le piazze erano tra i momenti più seguiti dell’intera trasmissione.
«Capirai, è tutto costruito a tavolino» sbuffò Manuel armeggiando col mouse.
«Cioè?»
«Le persone vengono selezionate una per una. Sanno già cosa devono dire, e pure quando».
«Intendi che sono degli attori?»
«Ma no, che attori!» saltò su d’improvviso. «Qui non ci sono attori! La gente è tutta vera, naturalmente. Ma ti pare?»
Ancora una volta Manuel sembrò quasi offeso. Stava sulla difensiva, come se le mie domande avessero il potere di sminuirlo personalmente agli occhi del mondo.
Per un attimo mi fece tenerezza: era chiaro che simili conversazioni gli costavano parecchia fatica.
«Supponiamo» continuò «che ci sia da mettere su una piazza contro l’aumento delle tasse. Hanno un politico di sinistra in studio ed è appena andato in onda un bel servizio commovente su qualche imprenditore del cazzo tartassato dal fisco. Mi segui? Be’, a questo punto ci vuole la piazza. E che fanno? Tirano fuori le loro agende e chiamano un bel po’ di associazioni di negozianti. Si fanno mettere in contatto con i tizi più incazzati, quelli che per pagare le tasse non hanno potuto far operare la madre morente, roba così. Li briffano uno a uno e li convocano nello stesso posto. Poi funziona come un set, con quelli dietro le quinte che danno la parola prima a uno e dopo all’altro, a seconda di cosa va detto. Conclusione: il politico in studio riceve un bel po’ di merda, e come vedi è tutta merda vera».
«Diciamo vera, sì, ma accuratamente selezionata» azzardai.
«Bravo! Cazzo, è questo il punto, no? Perché mentire, quando puoi selezionare le verità che ti piacciono di più?»
Era un principio che si stava riproponendo con una certa frequenza, dovevo appuntarmelo da qualche parte. Manuel scoppiò in una gran risata. Avevamo scoperto l’uovo di Colombo, e la cosa sembrava divertirlo da matti.
Che le piazze funzionassero proprio in quel modo me lo avrebbe confermato direttamente chi le organizzava. Era un gruppo di tre o quattro ragazzi, tutti decisamente in gamba, con un gran pelo sullo stomaco e un immenso bacino di contatti. Erano capaci, nel giro di pochissimo tempo, di mettere in piedi qualsiasi genere di platea addomesticata: professionisti rimasti senza lavoro, comitati anti-immigrazione, cittadini imbufaliti contro il degrado, nazivegani, fondamentalisti cattolici, disoccupati, cassintegrati. Facevano una vita d’inferno, tra sfilze di telefonate e logoranti trasferte in giro per l’Italia. Il copione di puntata era la loro Bibbia quotidiana. Il successo della trasmissione gravava in buona parte sulle loro spalle.
Marco era uno dei veterani del gruppo. Lo conobbi all’uscita dalla mensa. Come tutti lì dentro, aveva un fare straordinariamente simpatico. Sapeva chi ero perché aveva visto il mio primo servizio in tv, e subito mi invitò a prendere un caffè.
«Tu sei quello nuovo, eh?» esordì allungandomi le bustine dello zucchero. Anch’io sapevo chi era lui, Manuel me ne aveva parlato almeno venti volte. Sapevo che si era laureato in Scienze della comunicazione ma non era mai riuscito a diventare giornalista. Ogni tanto scriveva articoletti di costume per qualche testata online, spesso firmandosi con uno pseudonimo. Era un grande appassionato di storia della televisione e di cultura nazionalpopolare. Amava intervistare le vecchie glorie del tubo catodico, di cui conosceva vita, morte, miracoli e un infinito numero di aneddoti. Non scriveva per niente male, mi aveva assicurato Manuel, ma era anche ben conscio del fatto che campare di quella roba era praticamente impossibile. Perciò era finito a fare ciò che faceva.
«Sei finito dentro il più grande bordello della televisione italiana» sorrise. Era la stessa cosa che mi ripetevano quasi tutti, Marco però lo disse con un tono particolarmente compiaciuto. Gli risposi che per il momento stavo solo cercando di ambientarmi e di capire come giravano le cose. Lui continuò a sorridere e a fissarmi negli occhi, con l’aria di chi la sa molto lunga. «Mi hanno detto che ti occupi delle piazze» sorrisi a mia volta. «Già, la rogna peggiore di tutte. E che ti hanno detto delle piazze?» «Be’, che è un gran casino».
Non avevo intenzione di sbilanciarmi più di tanto. A differenza di Manuel, Marco non mi ispirava alcuna simpatia. Doveva avere circa la mia età, ma dimostrava almeno dieci anni in più. Aveva il culo basso, i capelli radi e un paio di occhiali dalla montatura dorata e sottile, decisamente fuori moda. Forse neppure lui era di destra, ma doveva essere una di quelle persone che, dopo aver chiuso la porta di casa, se ne fregano di tutto ciò che accade nel mondo.
«Un gran casino, sì» annuì Marco. «Ma calcola che senza le piazze non saremmo il programma che siamo. La gente devi farla sentire protagonista, non ci sono cazzi. Se no stai a fare il solito salotto di sinistra, con Landini, Cacciari e altri personaggi del genere. La gente è incazzata, no? La gente vuole dire la sua e noi le diamo la possibilità di farlo».
Poi iniziò a parlarmi del suo lavoro. Scoprii che Manuel non aveva affatto esagerato: Marco e i suoi colleghi erano innanzitutto degli ottimi sceneggiatori, in grado di selezionare qualsiasi categoria umana e di ridurla forzatamente al cliché di sé stessa.
«Il grosso lo fai con le telefonate. Devi capire in un attimo chi ti trovi di fronte. Devi capire se è “parlante”, come diciamo noi, cioè se funziona bene davanti alla telecamera. Quelli che parlano lentamente li scarti subito. Scarti anche quelli che tendono ad aprire mille parentesi, o che parlano il politichese e cose del genere. È tutta gente che non va bene. Devono saper esprimere un concetto chiaro, preciso, senza andare troppo in profondità nelle cose. È il popolo, no? Il popolo dice pane al pane e vino al vino, senza fronzoli, come direbbe mia nonna. È questo che ci piace.»
Marco non faceva giornalismo, faceva spettacolo. Il fatto che la realtà potesse spesso rivelarsi complessa sembrava esulare dalle sue preoccupazioni. L’importante era che A dicesse A, B dicesse B e C, se non aveva nulla di chiaro da dire, se ne stesse zitto.
«A volte facciamo fare dei cartelli» mi spiegò. «Anche quelli devono contenere messaggi semplici. Che so? “Basta tasse”, oppure “No all’immigrazione”. La gente deve mostrarli durante le dirette. Poi viene stabilita una scaletta degli interventi. Tizio deve dire questo e questo, Caio questo e quest’altro. Il giornalista si limita a far girare il microfono, ma siamo noi che selezioniamo le storie e decidiamo quali mandare in onda».
Guardai Marco, con quella sua faccia un po’ sfigata da vecchio topo di videoteca, e d’improvviso mi venne in mente il passaggio di un libro che avevo letto tanti anni prima: l’autobiografia di Victor Serge. Quella sera sarei andato a ripescarlo e avrei scovato di nuovo il brano che mi interessava.
Dopo essersi scontrato con Stalin, Serge aveva dovuto abbandonare l’Unione Sovietica ed era tornato in Europa occidentale. Con lui c’era il figlio adolescente, che era cresciuto nel mito della Rivoluzione russa e per la prima volta metteva piede in un paese capitalista. I due erano a passeggio nel centro di Bruxelles e si fermarono di fronte a un negozio di scarpe.
«Allora, questa grande costruzione appartiene a un uomo che può farne ciò che vuole?» chiese il ragazzo.
«Sì, il suo nome è scritto sull’insegna» rispose Serge.
«Questo signore ha probabilmente una fabbrica, una casa di campagna, delle automobili.»
«Per lui solo?»
«Insomma, sì…»
Al giovane sovietico dovette sembrare folle. «Ma per cosa vive quell’uomo? Qual è lo scopo della sua vita?» chiese.
Era una domanda meravigliosa, e io ora la riflettevo su Marco: per cosa viveva quell’uomo? Qual era lo scopo della sua vita? Intanto il bar si era ormai svuotato. Finita la pausa pranzo, quasi tutti i dipendenti del gruppo erano tornati nelle rispettive redazioni. I nostri discorsi riecheggiavano nel silenzio, di fronte al bancone sgombro, mentre i camerieri, in bustina bianca con il logo aziendale ricamato all’altezza della fronte, rimettevano diligentemente a posto tazze e tazzine.
Mi chiesi se avessero origliato qualcosa, che ne pensassero e se si fossero fatti anche loro delle domande su di noi. Ma dalla gentilezza affettata con cui ci sorrisero al momento di pagare dedussi che in fondo non doveva fregargliene granché.
Da “Caccia al nero. Confessioni di un insider della tv populista”, di Anonimo, Chiarelettere, 128 pagine, 14 euro