Se è stata la sua ultima conferenza stampa da premier la si ricorderà come la lezione finale di un presidente del Consiglio che fino all’ultimo ha tenuto alta la dignità di un’alta funzione istituzionale oltre che la sua personale. C’è lo stile di Mario Draghi, fatto di ragione e passione assieme, senza mai debordare: ed è qui la prima, evidente differenza con i leader dei partiti cui spesso e volentieri sfugge la frizione, chi più chi meno.
Nel giorno dell’ennesima manovra per far fronte al carovita (14 miliardi) ma soprattutto nelle ore dell’immane disastro delle Marche, dove poi è giunto, Draghi ha esibito con stile l’ostentato tirarsi fuori dalla contesa elettorale in corso, persino riprendendo con ironia forse non capìta l’affermazione di una collega (ci scusi se ci è sfuggito il nome) che aveva detto che lui «è sceso dal cielo»: «Come ha detto lei, sono sceso dal cielo e quindi non posso dare giudizi sulla campagna elettorale in corso».
E il secco «no» con cui ha escluso un secondo mandato va letto in questa cornice di voluta estraneità alla battaglia elettorale, perché in fin dei conti – ha detto successivamente – chi può sapere cosa accadrà. Ma certo la nettezza di quel no annebbia il sogno di chi lo vorrebbe ancora in campo: il Partito democratico ha immediatamente colpito duro sul mento del Terzo Polo che ha fatto del ritorno di Draghi a palazzo Chigi la sua bandiera.
E ora? Fonti vicine a Carlo Calenda hanno avanzato una domanda retorica: poteva forse dire «sì, accetterei un nuovo incarico», cioè gettarsi nella mischia elettorale? È lo stesso ragionamento che ha fatto Matteo Renzi a Pordenone, intervistato dal direttore de Linkiesta Christian Rocca, chiarendo che la cosa alla fin fine dipenderà da Sergio Mattarella.
Dice Renzi: «Sappiamo tutti che la differenza la farà, e l’ha fatta, solo la chiamata di Mattarella. Se la Meloni non riuscisse ad avere i numeri per governare toccherebbe al presidente della Repubblica indicare un presidente del Consiglio». Ma è chiaro che non tutti hanno capito che la figura di Draghi non è quella del capopartito e men che meno di uno che sgomita a caccia di potere, lui è e vuole restare un’autorità al di sopra del Grand Hotel della politica nostrana, ed è semplicemente impossibile per chiunque stabilire adesso cosa gli riserva il futuro.
Ma quel no rimbomba, pesa. Come pesava quello di Mattarella alla sua rielezione, poi andò in un altro modo, per dire.
La cosa che ieri è balzata agli occhi è Il modo elegante col quale il presidente del Consiglio ha evitato risposte esplicite sulla prospettiva di un governo di destra pur senza risparmiare, senza citarli, bordate prima a Matteo Salvini e poi a Giulio Tremonti ma con riferimento alle cose di adesso, quelle che lo riguardano: la Lega – dunque Salvini – che «non ha mantenuto la parola data» sulla delega fiscale (forse mai in passato era stato così severo, addirittura da un punto di vista morale, su un partito della coalizione) e poi Tremonti, che sta seminando notizie su un pesante lascito di miliardi e miliardi che il governo Draghi lascerebbe in eredità al successivo (ci ha pensato Daniele Franco – lodatissimo dal presidente del Consiglio- a smontare la panna).
Ma su Salvini (riferimento implicito) il frontale duro è stato sulla Russia: «Qualcuno parla con Mosca e vuole togliere le sanzioni», che, per inciso, «funzionano» mentre alla Meloni ha spiegato che sul Pnrr c’è poco da modificare, ma chissà se lei avrà capito l’antifona.
E di striscio una botta è arrivata anche a Giuseppe Conte, contrario all’invito di armi all’Ucraina è contento della controffensiva delle truppe di Zelensky – «Avrebbe voluto una controffensiva a mani nude?» – una controffensiva che l’Italia naturalmente sosterrà «fino alla Liberazione, perché questa è una guerra di Liberazione».
A un certo momento si è anche un po’ irrigidito, non diciamo irritato perché Draghi difficilmente si irrita, almeno in pubblico, di fronte ai cronisti che, come insegna il mestiere, mettevano in luce i problemi – le presunte ingerenze russe, le dissociazioni della Lega eccetera eccetera: «La democrazia italiana è più forte, non si fa battere da pupazzi prezzolati». E ha ripetuto il concetto alla fine: «L’Italia è forte». Che è poi, in tre parole, la sintesi suprema del suo anno e mezzo a palazzo Chigi, la sua eredità, il suo messaggio.