È morto domenica scorsa a 87 anni Gianfranco Spadaccia, una delle figure più rappresentative e riconosciute della storia radicale e una delle politicamente più longeve. Era uno degli ultimi sopravvissuti di quel gruppo di giovani della sinistra liberale che, nel 1955, animò il primo Partito Radicale e pochi anni dopo, tra il 1962-63, raccolse il testimone della generazione dei Mario Pannunzio, Nicolò Carandini, Bruno Villabruna e Leopoldo Piccardi, inaugurando una spregiudicata, ma non subalterna, strategia di apertura al Partito Comunista italiano, anticipata nel 1959 da un famoso articolo di Marco Pannella su Paese Sera e guardata con diffidenza da molti radicali, di venti o trent’anni più vecchi, di cultura repubblicana e azionista.
Da allora Spadaccia è stato uno dei protagonisti o antagonisti di tutte le scelte ed evoluzioni compiute dal soggetto radicale, che lo ha sempre visto visibilmente al centro o, più discretamente, dall’esterno contro le scelte politiche pannelliane.
Negli anni ’60, iniziò la sua attività giornalistica all’Astrolabio, settimanale fondato da Ernesto Rossi e Ferruccio Parri dopo la rottura con il Mondo di Pannunzio, con cui i due avevano interrotto le relazioni dopo una, anzi forse la prima delle tante sanguinose rotture che costelleranno la futura storia radicale: il caso Piccardi.
Da giornalista Spadaccia svolse anche l’apprendistato alla militanza politica, quando con Agenzia Radicale partecipò alle inchieste di denuncia dei condizionamenti dell’Eni di Eugenio Cefis sull’informazione e sulla politica italiana e dello sfruttamento dei fondi per la pubblica assistenza da parte dell’ONMI (Opera Nazionale Maternità e Infanzia), ente di origine fascista trasformato in un opaco centro di potere dalle correnti andreottiane e fanfaniane della Democrazia Cristiana.
In seguito Spadaccia animò le campagne anticlericali e anti-concordatarie e organizzò, sotto la regia di Mauro Mellini, il loro sbocco politico-parlamentare nell’iniziativa della Lega Italiana per il Divorzio, che consentì di aprire una breccia concreta nei rapporti con il PCI (aderì alla LID l’ex presidente della Costituente Umberto Terracini), ma soprattutto a stringere, attraverso Loris Fortuna, un patto politico con il Partito Socialista italiano, che l’ascesa alla segreteria di Bettino Craxi nel 1976 non interruppe, ma rafforzò, fino alla rottura fragorosa tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, quando Pannella e il leader socialista si trovano sui due lati opposti della barricata referendaria.
Da segretario radicale, Spadaccia nel 1975 fu arrestato con Adele Faccio ed Emma Bonino per le disobbedienze civili del CISA – Centro d’iniziativa sulla sterilizzazione e l’aborto – che praticava alla luce del sole aborti illegali per denunciare lo scandalo dell’aborto clandestino. Di lì in poi per tre Legislature – dal 1979 al 1990 – è stato parlamentare radicale, nell’VIII e nella X al Senato e nella IX alla Camera.
Alla fine degli anni ’80 arrivò la svolta transnazionale di Pannella che, a differenza di altri due compagni della prima ora, Massimo Teodori e Mauro Mellini, Spadaccia non avversò e non ritenne uno spariglio tattico o un divertissement spettacolare, che un altro dei radicali più scettici, Enzo Tortora, paragonò sarcasticamente al Cacao Meravigliao.
Nell’immediato e anche in seguito, retrospettivamente, non sminuì mai quella proiezione transnazionale e federalista che, poco prima del crollo del Muro di Berlino, Pannella presentava come un’urgenza profetica e molti radicali subivano invece come un escamotage per liquidare l’organizzazione politica nazionale, trascinandola in una sfida contro i mulini a vento come, secondo i suoi critici, Pannella aveva fatto già una volta, all’inizio degli anni ’80, con la battaglia sullo sterminio per fame, dopo il successo alle politiche del 1979, per ridimensionare le ambizioni e l’autonomia politica della sua folta rappresentanza parlamentare. Spadaccia guardò però senza indulgenza ai risultati di questa esperienza, al suo carattere oggettivamente velleitario e organizzativamente approssimativo, privo di un vero ancoraggio internazionale e troppo simile a un sogno da esportazione.
Su altre vicende interne – una questione di dimissioni e subentri in Parlamento, in cui vide ingiustamente sacrificato Angiolo Bandinelli a beneficio di Domenico Modugno – Spadaccia maturò invece un vero distacco dall’organizzazione radicale e da Pannella e tornò, a 55 anni, al suo mestiere di giornalista all’AGI, da cui continuò a seguire le vicende del PR in modo partecipe, ma esterno e spesso esplicitamente critico.
Così fu durante la fase “berlusconiana” degli anni ’90, in cui non fece mistero di preferire di votare per i partiti della sinistra piuttosto che per la Lista Pannella; visse quel periodo, se non come un tradimento, come una dissipazione del patrimonio di cultura liberal-socialista che fin dalle origini il Partito Radicale si era incaricato di serbare e di rinnovare, non di superare a beneficio di un paradigma classicamente liberal-liberista. Molto più tardi, nel 2016, alla morte di Pannella, per normalizzare e ricondurre a canoni consueti i suoi eccessi “amerikani”, dirà che il leader radicale, che all’inizio degli anni ’80 sdoganò in Italia con Antonio Martino il pensiero di Milton Friedman, nella famosa polemica tra Croce ed Einaudi sulla inscindibilità tra liberalismo politico ed economico propugnata dal secondo, si sarebbe certamente schierato dalla parte del primo, a sostegno della tesi del carattere strumentale e non morale della libertà economica. Giudizio discutibile, quantomeno.
Spadaccia tornò all’impegno militante radicale a metà degli anni 2000, non a caso a ridosso della esperienza della Rosa nel Pugno (il formale ritorno a sinistra dei radicali, nella coalizione prodiana) e con le iniziative dell’Associazione Luca Coscioni, che lo ha visto per oltre un quindicennio assiduo dirigente politico impegnato a decifrare le complicate relazioni tra scienza e libertà, tra sapere e potere, tra diritto alla conoscenza e autonomia personale, che, su un altro versante, occuparono anche gli ultimi anni dell’impegno politico di Marco Pannella.
Dopo la rottura di Pannella con Emma Bonino, qualche tempo prima della sua morte – un prodromo della conflagrazione della galassia radicale che vede oggi non solo una divisione tra radical-pannelliani e radical-boniniani, ma uno spezzettamento e una polverizzazione tutt’altro che decifrabile dall’esterno e sempre meno sopportabile anche dall’interno – Spadaccia si schierò generosamente dalla parte di quest’ultima, seguendola (o forse, più realisticamente, guidandola) nell’esperienza di +Europa, di cui fu il primo presidente e in cui fino a un anno fa – con un mestiere consumato e uno spirito agonistico inusitato per un ultra ottantacinquenne – continuò a battagliare in assemblee e riunioni con la stessa perentorietà che quarant’anni prima ne aveva fatto un protagonista temuto e rispettato dei Congressi radicali: «Silenzio, parla Spadaccia…».
In un libro pubblicato un anno fa “Il Partito Radicale. Sessanta anni di lotte tra memoria e storia”, a cui aveva lavorato duramente in una corsa contro il tempo, temendo una morte imminente, Spadaccia tira le fila di un sessantennio di attività politica radicale, restituendo a essa quel carattere plurale che difficilmente le viene riconosciuto.
Qualche giorno fa, Adriano Sofri nel congedarsi da Spadaccia su Il Foglio lo ha paragonato a una sorta di Noè della storia radicale, impegnato a metterla in salvo con i suoi protagonisti, senza farsi carico, scampato il diluvio, «della diaspora universale dopo lo sbarco. Per un po’ ci hai provato, poi ti sei rassegnato, andasse ciascuno per la sua strada».
La lettura degli scontri e dei dissidi radicali come di una prova di immaturità degli epigoni rispetto alla saggezza e alla virtù dei loro padri o “salvatori” però poco si attaglia alla vicenda di un partito che ha replicato, sin dall’inizio, lo stesso schema di divisioni e disconoscimenti, di incomunicabilità e di irriconoscibilità in primo luogo tra i principali protagonisti della sua storia.
Anche in questo caso, ha poco senso domandarsi quanto questo risponda a debolezze e incapacità soggettive, visto che il fenomeno non ha riguardato solo seconde e terze linee avvezze al fanatismo gregario – basti pensare all’ultima rottura tra Pannella e Bonino e alla prima tra Rossi e Pannunzio – ed è piuttosto stato una costante del modo di funzionare di questo partito formalmente libertario, privo di un corredo disciplinare di obblighi e doveri per iscritti e dirigenti – da cui la metafora del pullman su cui si sale a da cui si scende quando si vuole, purchè si paghi il biglietto per il tragitto percorso – ma abituato a convivere con maledizioni e anatemi, con rotture definitive e incomponibili. Non – si badi – con inquisizioni ed espulsioni formali, ma con disconoscimenti ed esclusioni sostanziali.
La ragione è forse proprio nel modo di essere e di funzionare del corpo politico radicale, che ha sempre cercato e trovato solo un’unità di azione e attorno all’azione, e alla partecipazione a essa ha misurato le vicinanze e le lontananze, le lealtà e i disallineamenti. Non nella condivisione di un patrimonio culturale e ideologico, ma in una lotta, rispetto alla quale ogni renitenza appare, se non come una diserzione e un tradimento, come una dissociazione, un ingombro o un cascame inutilmente parassitario.
Si tratta – azzardo un giudizio – di un meccanismo esclusivo e escludente che lo stesso Spadaccia – anche lui totus politcus, alla pari di Pannella e molti dei suoi compagni di strada – deve avere sperimentato, imposto e anche subìto come una bussola necessaria e che oggi ha smesso di funzionare all’interno, polverizzando la compagine radicale, perché ha anche smesso di funzionare all’esterno e di determinare in modo oggettivo l’agenda politica del Paese.
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La camera ardente di Gianfranco Spadaccia sarà allestita martedì 27 settembre dalle 10 alle 18 al Senato, Palazzo Madama, Sala Caduti di Nassirya e sarà aperta al pubblico.
Gli uomini devono indossare giacca e cravatta.