«Quante volte… abbiamo parlato dei Buddenbrook, poi di quelle grandi famiglie che avevamo alle spalle, che sono la sola cosa di cui si vuole sapere, di cui si vorrebbe scrivere. Di questi ultimi lembi di famiglie – isole miracolose in questo mondo di orride relazioni carnali – ultime ali degli edifici perfetti sui quali un tempo era scritto Dominus providebit». Così scriveva Cristina Campo, e chi potrebbe darle più ragione di Alexsandar Hemon, che il 30 agosto 2022 compare in Italia con un libro dal titolo “I miei genitori”? Edito da Crocetti e tradotto da Gianni Pannofino, vuole essere senz’altro un memoir, ma anche la testimonianza diretta e indiretta di un tempo che non esiste più, che ci è appartenuto per pura casualità – perché l’ambiente in cui siamo nati e cresciuti non è dato di sceglierlo – e proprio per questo brilla di una luce autentica, la prima e forse l’unica della nostra vita.
I “genitori” di Hemon sono una coppia normale, serafica, dalle abitudini e dalle ossessioni che potrebbero ricordarci facilmente quelle di una sbiadita Italia degli anni Cinquanta tanto cara alla cinematografia: lui è operoso, burbero, vagamente ossessivo, lei cucina, è tenera e apprensiva. Entrambi adorano mangiare, stare seduti a tavola, le feste intese come le ricorrenze che intercorrono e si svolgono in famiglia – il Natale, il Capodanno, i compleanni, gli anniversari. Sono sospettosi nei confronti di ciò che esula dal bacino di ciò che li definisce. La narrazione si snoda attraverso i tratti tipici delle identità di entrambi – il cibo, il canto, le storie, l’apicoltura. Niente di più, niente di meno.
Certamente il perno del romanzo – e forse anche la sua fortuna, in un momento come questo – è la ricostruzione della guerra in Jugoslavia e la conseguente dispersione di un’appartenenza nazionale il cui unico collante era Tito: i genitori di Hemon sono costretti a fuggire in Canada e così accettano, riconcepiscono il proprio destino sulla base di un perenne esilio, di una perpetua condizione di stranieri, che molti popoli dell’est Europa scontano ancora oggi. La loro storia è frammentata, contorta. Per giunta le origini del padre di Aleksandar sono ucraine, o almeno, provengono da ciò che oggi si riconduce geograficamente all’Ucraina occidentale, la Galizia, e questo filo, seppur sottile, con quel territorio, lo gonfia di un orgoglio e di una nostalgia che ci dice molto anche del clima attuale e delle ragioni storiche e politiche a esso connesse.
Il padre di Alexsandar non ha ricordi dell’Ucraina se non quelli fumosi della prima infanzia, né vi ha mai più fatto ritorno. Non ha parenti o amici stretti che la abitano attualmente. Eppure, il legame è stratificato e intenso al punto da farne una sorta di deposito culturale. Insieme ai suoi cugini e fratelli si definisce ucraino, non bosniaco. I canti con cui intrattengono gli ospiti di passaggio, i vicini di casa, i matrimoni e i funerali, perché, come scrive l’autore «Gli Hemon cantano così come si respira, per un bisogno incontenibile e slegato da qualsivoglia stimolo esterno» sono condotti in un obsoleto dialetto ucraino, «benché infarcito di parole bosniache ucrainizzate». Gli Hemon subiscono una doppia frattura: abbandonano l’Ucraina, patria leggendaria, mitizzata e dunque nulla più che «un’astrazione», e poi abbandonano anche la Bosnia, proprio al culmine della loro stabilità economica e sociale.
Ma il libro non parla di questo. Le origini contadine degli Hemon, che vengono mantenute all’interno di rituali ricorrenti e nella posa stessa con cui guardano il mondo, sono solo un pretesto per sottolineare il vero intento letterario del romanzo: il ritorno al passato, il riverbero delle cose perdute e l’autenticità, di cui siamo tutti o in parte convinti essere rimasta intatta, sigillata e sepolta nell’infanzia, o in una porzione di essa.
La storia dei genitori di Hemon non intende affatto fare luce sull’evoluzione di una nazione, o sul corso della guerra in Jugloslavia. È la storia di loro stessi. Si evince già dal titolo. Potrebbero essere nati e cresciuti altrove, anzi, non potrebbero, perché questo li renderebbe due persone completamente diverse e lo scopo è proprio quello di fermarli in quanto tali, disegnarli. «Quando è uscito il libro, mia madre ha puntato un dito al cielo e ha detto: “Ci hai costruito un monumento”», spiega Hemon a Linkiesta.
Ho domandato ad Alexsandar Hemon se l’ossessione nei confronti delle “famiglie” che descriveva Cristina Campo è dovuta all’assenza di futuro. Dal momento che il domani è minacciato, imprevedibile e potenzialmente catastrofico, “inventare mondi” diventa un’operazione narrativa artificiosa, fasulla, in cui riescono ormai pochi, solitari visionari. Gli altri si rassegnano a un ritorno entro se stessi, o quantomeno si volgono con lo sguardo nella direzione opposta: a ieri, per l’appunto. Circoscrivere, raccontare la propria famiglia è perciò un rifugio, ma anche il tentativo di salvare dall’abisso le poche briciole di un tempo di cui altrimenti non esisterebbero più tracce, e che invece ci si accanisce a salvare, a mostrare, a raccogliere.
Lui mi ha risposto di sì, che è così. Quando è scoppiata la guerra a Sarajevo studiava già negli Stati Uniti, i suoi genitori si sono precipitati nell’Ontario per trovare asilo e la sua identità fino a quel momento si è contratta, diventando un nulla di fatto. Preclusagli la possibilità di rientrare a casa, si è adeguato a una lenta, progressiva, inconscia “americanizzazione”. È diventato il figlio adottivo della terra che abitava in quel momento. Ma esiste in noi una discendenza, una genesi di sangue reale, effettiva, e portarla alla luce per difenderla è tra le poche risorse che sono rimaste all’interno di questo presente disorientante, dove la voce del singolo è continuamente sovrastata dalle voci di altri, e tutto si confonde, si disperde e si dissolve.
Avere perso di vista dove siamo diretti, anzi, non sapere neppure se siamo diretti da qualche parte e se il futuro ci comprenderà oppure no, rende necessario risaltare il luogo da dove veniamo, quel “prima” dove, come per Hemon e suo padre, sentiamo ancora rifulgere un tocco di verità.