GrillizzazioneIl Pd che rinnega il Jobs Act è una copia del Movimento Cinque Stelle, dice Renzi

Il leader di Italia Viva ricorda che la riforma «ha creato oltre un milione di posti di lavoro, di cui 700mila a tempo indeterminato». E dice: «È stato l’ultima grande misura fatta in Italia in favore del lavoro: un partito riformista dovrebbe non solo difenderla ma anche rivendicarla». Il ministro Orlando replica: «È stata l’ultima grande scommessa liberista sul mercato del lavoro»

LaPresse

«Nelle ultime ore il Pd ha deciso di attaccare il Jobs Act per difendere il reddito di cittadinanza, di attaccare una misura che ha creato posti di lavoro per difenderne una che ha prodotto assistenzialismo, di schierarsi contro la cultura del lavoro in favore di quella del sussidio». Dopo le critiche arrivate dai Dem alla riforma del lavoro approvata nel 2015 dal governo Renzi e voluta dallo stesso Pd, il leader di Italia Viva Matteo Renzi firma un intervento sul Quotidiano Nazionale in difesa di quella che è stata una delle riforme di punta del suo governo.

«L’aspetto incredibile di tutto questo è che chi aveva fatto il Jobs Act era stato il Pd stesso», ricorda Renzi. «Dall’altro lato, all’epoca del governo gialloverde, quando fu portato in aula il reddito di cittadinanza il Pd fece ostruzionismo. E badate bene: allora il segretario non era più Matteo Renzi, ma Maurizio Martina». Insomma, dice Renzi, «Il Pd sta smentendo se stesso, in un rovesciamento delle parti surreale».

Andando a guardare i numeri, spiega, «non si comprende il motivo di questa presa di posizione. Il Jobs Act ha creato oltre un milione di posti di lavoro, di cui 700mila a tempo indeterminato. Rinnegarlo significa rinnegare la cultura del lavoro che ha da sempre caratterizzato l’identità riformista del partito democratico. Disconoscere il Jobs Act non significa insomma sconfessare Tony Blair o Matteo Renzi, ma il Pd stesso, la sua identità, la sua storia, la sua cultura e quella della sua comunità». Il Jobs Act, ricorda Renzi, «è stato l’ultima grande misura fatta in Italia in favore del lavoro: un partito riformista dovrebbe non solo difenderla ma anche rivendicarla. Se cancellano con un colpo di spugna il riformismo che investe sul lavoro, abbracciando la cultura del reddito di cittadinanza, diventano semplicemente una copia del Movimento Cinque Stelle. Un passo verso la metamorfosi lo hanno già fatto, candidando Luigi Di Maio. Se però questa è la strada intrapresa da Enrico Letta, a questo punto possono anche decidere di cambiare nome e passare da democratici a grillini».

Il primo a criticare la riforma del lavoro di renziana memoria, in un’intervista al Manifesto, è stato Enrico Letta: «Il Jobs Act va superato», ha detto ammiccando all’elettorato di sinistra per archiviare l’eredità dell’ex premier e segretario. Anche se, a ben vedere, nel programma non è previsto alcun riferimento.

A seguire, anche altri esponenti del Partito democratico in queste ore hanno criticato la misura. Compreso il ministro del Lavoro Andrea Orlando, che in un’intervista a Domani ricorda di essere stato uno dei maggiori difensori del reddito di cittadinanza nella maggioranza del governo Draghi. E poi spiega: «Il Jobs Act non è stato solo l’abolizione dell’articolo 18. Era una scommessa sulla possibilità di superare la polarizzazione fra il contratto a tempo indeterminato e quelli a tempo determinato. Che ha funzionato, parzialmente, finché c’è stato un forte incentivo alla stabilizzazione. Appena venuto meno questo, il percorso si è interrotto. L’altra molla era il contratto a tutele crescenti, ovvero meno vincoli sul licenziamento per spingere verso la stabilizzazione. Il Jobs Act è stata l’ultima grande scommessa liberista sul mercato del lavoro di una serie che inizia negli anni Novanta, e a cui la sinistra ha partecipato. La scommessa era già persa pochi anni dopo l’approvazione, tant’è che al congresso del 2017 in cui mi candidai segretario si poneva già il suo ripensamento. Ripristinare l’articolo 18 sarebbe così com’era sarebbe forse anacronistico, ma è comunque necessario intervenire perché diverse sentenze della Consulta hanno messo in luce gravi incongruenze del Jobs Act. L’ultima, dello scorso luglio, ha esortato il Parlamento a intervenire per mettere mano a queste incongruenze. Aggiungo che sul tavolo, con quella maggioranza che reggeva Draghi, c’era rendere più caro l’utilizzo del lavoro a tempo determinato rispetto a quello del lavoro stabile insieme al superamento di alcune tipologie contrattuali».

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