Papa Francesco ha ieri beatificato in piazza San Pietro uno dei suoi predecessori, tra i più amati tanto in vita quanto dopo la morte: Giovanni Paolo I. Affetto, ricordo, venerazione verso di lui sono anzi aumentati nel tempo a dispetto d’un pontificato di soli 33 giorni. Un periodo di così breve durata da far spesso accostare Albino Luciani a Leone XI (1° aprile – 27 aprile 1605), di cui si disse essere stato «ostensus magis quam datus», mostrato più che dato. Eppure, dal 26 agosto al 28 settembre 1978 l’ex patriarca di Venezia, succeduto a Paolo VI, impressionò la pubblica opinione e destò generale simpatia con atti improntati a semplicità ed essenzialità: sostituzione del solenne rito dell’incoronazione con una più sobria Messa per l’inizio del ministero del Sommo Pontefice, la dismissione della tiara, l’abbandono del plurale maiestatis nei discorsi, il tratto catechetico delle udienze del mercoledì, di cui quella del 6 settembre caratterizzata da un improvviso colloquio con un chierichetto maltese e quella del 13 dalla citazione a memoria d’una poesia di Trilussa.
Colpirono inoltre le parole dette all’Angelus del 10 settembre: «Anche noi che siamo qui, abbiamo gli stessi sentimenti; noi siamo oggetto da parte di Dio di un amore intramontabile. Sappiamo: ha sempre gli occhi aperti su di noi, anche quando sembra ci sia notte. È papà; più ancora è madre. Non vuol farci del male; vuol farci solo del bene, a tutti. I figlioli, se per caso sono malati, hanno un titolo di più per essere amati dalla mamma. E anche noi se per caso siamo malati di cattiveria, fuori di strada, abbiamo un titolo di più per essere amati dal Signore». Nonostante i numerosi passi biblici, in cui Dio è descritto quale madre, tali affermazioni di Giovanni Paolo I apparvero del tutto inusitate. Piacquero ai più, ma dispiacquero ad altri, cui l’intero magistero del nuovo pontefice appariva sciatto e banale.
Luciani aveva in realtà continuato a comportarsi e a trasmettere il messaggio cristiano con le sue caratteristiche doti di catechista, dimostrando e affermando «col proprio esempio – così Wojtyła il 22 gennaio 1979 – che cosa è, e che cosa deve essere la catechesi nella vita della Chiesa dei nostri tempi. Per questo sono stati sufficienti i trentatré giorni del suo pontificato». Ma Papa Francesco ha anche definito ieri quella di Giovanni Paolo I una vita «vissuta nella gioia del Vangelo, senza compromessi, amando fino alla fine. Egli ha incarnato la povertà del discepolo, che non è solo distaccarsi dai beni materiali, ma soprattutto vincere la tentazione di mettere il proprio io al centro e cercare la propria gloria». Non senza il classico riferimento al sorriso, «con cui Papa Luciani è riuscito a trasmettere la bontà del Signore».
Benché sia fondato parlarne nei termini di “Papa del sorriso”, non c’è in pari tempo nulla di più riduttivo di un tale appellativo, che rischia – e non poche volte è accaduto e accade – di banalizzare la figura di Giovanni Paolo I. D’altra parte, Maffeo Ducoli, che fu vescovo di Belluno (diocesi natale del papa) e Feltre, ebbe a dire di lui: «Non era un carattere da sorriso». E gli argomenti potrebbero moltiplicarsi all’infinito.
Pur avendo mostrato, ad esempio, aperture sul tema della contraccezione negli anni dell’episcopato a Vittorio Veneto, Luciani si era poi pienamente allineato alla linea dannatoria, che Paolo VI aveva espresso nell’Humanae vitae. Tanto affabile con chicchessia e sollecito verso la povera gente, quanto inflessibile in materia di obbedienza al magistero pontificio, rispetto della gerarchia, disciplina canonica, principi morali. Fu così che, ad esempio, il 12 settembre 1967 aveva scagliato l’interdetto contro la parrocchia di Montaner per le reazioni dei fedeli al parroco da lui nominato. Mentre osteggiò sempre, lui fieramente avverso al capitalismo, i preti operai, impegnati a suo dire, in una coniugazione del cristianesimo col marxismo del tutto estranea allo spirito conciliare. Da patriarca di Venezia, inoltre, condusse un’accanita battaglia in occasione del referendum del ’74 sul divorzio, arrivando a colpire con pene canoniche i sacerdoti favorevoli a un tale istituto e a sciogliere la sezione veneziana della Fuci, schieratasi per il no all’abrogazione della legge Fortuna-Baslini.
Ma pari, anzi maggiore fermezza mostrò contro ogni malaffare e gestione opaca dei beni ecclesiastici. Nel 1972, tre anni dopo la nomina a patriarca di Venezia, ebbe un violento scontro in Vaticano con l’allora presidente dello IOR, l’arcivescovo Paul Marcinkus: questi aveva deliberato, senza neppure informare la Conferenza episcopale del Triveneto, la cessione del 37% delle azioni della Banca Cattolica del Veneto al Banco Ambrosiano di Roberto Calvi. Contrarissimo a una tale operazione, Luciani protestò con Paolo VI. Ma invano. È più che verisimile pensare che una volta papa, se fosse rimasto più a lungo in vita, avrebbe rimosso Marcinkus dall’incarico, come avrebbe anche proceduto a nomine inappuntabili all’interno della Curia in nome della trasparenza e del rigore morale. La morte però, sulle cui cause sono poi stati versati proverbiali fiumi d’inchiostro, glielo impedì.
Al riguardo sono indubbiamente da rigettare le varie tesi complottistiche alla David Yallopp. Ma è pur vero che sussistono pur sempre gravi riserve sulla recognitio cadaveris, effettuata da Renato Buzzonetti, e sul referto medico da quegli steso, in base al quale il primo comunicato ufficiale diffuso al mattino del 29 settembre parlò di «decesso avvenuto […] per grave infarto miocardico». E questo con buona pace della vicepostulatrice Stefania Falasca, pur autrice di imprescindibili opere storico-documentali su Giovanni Paolo I (fondamentale la sua poderosa Biografia ex documentis), che, durante la conferenza stampa del 2 settembre in Vaticano, ha tuonato con qual certa sicumera contro «la bugia storica» della morte per avvelenamento e i sostenitori d’una tesi liquidata quale «pattumaglia pubblicistica». E l’ha fatto con un’osservazione in sé incontrovertibile: «Quando ci sono le fonti, la storia parla davvero».
Ora, tra quelle mediche puntualmente indicate non possono certamente ritenersi incontrovertibili l’accennato referto, steso dal dottore Buzzonetti e controfirmato dall’archiatra pontificio Mario Fontana, né le varie relazioni mediche d’entrambi, perché esse furono stilate sulla base del solo esame esterno della salma di Giovanni Paolo I. Ma per Falasca tali documenti hanno invece carattere irrefragabile tanto da aver ribadito in conferenza stampa ore rotundo che il papa veneto, stando alla diagnosi di Buzzonetti e Fontana, morì di «morte improvvisa» e che il suo «è stato un infarto». Non senza osservare che la relativa autopsia da più parti invocata, ma ritenuta superflua dai due stessi medici e dunque respinta dal Collegio cardinalizio, sarebbe stata di fatto normata con specifica disposizione solo nel 1983. Ma sotto quest’ultimo punto si potrebbero in realtà addurre a confutazione non pochi precedenti illustri, tenendo in conto che fino a Leone XIII, l’ultimo dei pontefici defunti a essere sottoposto a imbalsamazione, una tale pratica comportava, fra l’altro, l’asportazione del cuore e dei precordi con tanto di relativa certificazione autoptica.
Circa poi l’accennato esame esterno, per quanto accurato potesse essere stato, era però tutt’altro che bastevole alla formulazione d’una diagnosi certa d’infarto miocardico. Lo spiega a Linkiesta la medica legale Monica Fonzo, secondo la quale «nel caso di Papa Luciani si sarebbe potuti pervenire a un tale conclusione solo dopo accurato esame autoptico». Non può poi sfuggire poi a chi legge la più volte citata documentazione come Buzzonetti, nell’inoltrare il 9 ottobre all’allora sostituto della Segreteria di Stato Giuseppe Caprio la richiesta relazione sul referto medico, avesse comunque parlato di «causa presumibile del decesso» e presentato come fortemente deducibile la morte improvvisa per cardiopatia ischemica.
C’è inoltre da dire che lo stesso Giuseppe Caprio, creato poi cardinale da Giovanni Paolo II, ha più volte riservatamente sollevato dubbi col sottoscritto su detta diagnosi. Più tranchant, invece, il gesuita Giandomenico Mucci, scrittore de La Civiltà Cattolica e per oltre 30 anni direttore spirituale presso l’Accademia ecclesiastica, che riteneva Buzzonetti «uomo di scienza tutt’altro che libero da condizionamenti, pronto in determinate circostanze a dire tutto e il contrario di tutto». D’altra parte, il defunto sacerdote della Compagnia non era certo tra gli ammiratori entusiasti di Luciani, di cui talora deplorava nelle conversazioni l’angusta preparazione teologica, rimasta di fatto ancorata all’impostazione manualistica del Tanquerey, e i riferimenti in discorsi e scritti ad autori, che sembrava di conoscere solo superficialmente. Al di là di tutto importa quello che Giovanni Paolo I ha significato nei 33 giorni di pontificato e ancora significa: braccia aperte a tutti come quelle di una madre accogliente e premurosa per ogni suo figlio, pugno di ferro verso adulteratori e sovvertitori dell’evangelica povertà all’interno della Chiesa di Roma.