Il quarto attoDimmi come si fa a diventare Silvio Scaglia

Con “Dinastie” (Rizzoli), Michele Masneri raccoglie le sue incursioni nella nuova aristocrazia italiana, quella senza blasone ma con molti soldi, che stravolge equilibri consolidati con le sue idee

Sam Mgrdichian, Unsplash

Autobiografia tecnologica d’Italia, in un’ideale vita parallela con l’altro e più celebre Silvio, tra innovazione mediatica, successo, traversie giudiziarie e muliebri, Silvio Scaglia risponde su Zoom dalla sua casa newyorkese, per raccontare quello che è il quarto atto della sua vita.

Un nuovo progetto imprenditoriale, un nuovo amore, e quindi ecco à rebours gli altri tre; il successo clamoroso di uno dei pochi startupper italiani-globali nell’epoca delle dot.com, poi la clamorosa vicenda giudiziaria, l’incarcerazione, poi l’assoluzione e la terza vita, quella glamour finita pure in una serie Netflix accanto alla seconda moglie, Julia Haart. Infine oggi, con un nuovo business e una nuova fidanzata.

Partiamo però dal capitolo più clamoroso, il terzo, perché il caso è unico, a Milano per un po’ non s’è parlato d’altro. Scaglia, detto “il Mago”, uno dei più geniali imprenditori italiani, di leggendaria sobrietà, infanzia a Novara, Politecnico di Torino, poi McKinsey, Omnitel, Fastweb, serietà leggendaria, finisce dentro My Unorthodox Life, serie Netflix in cui la vibratile ebrea russa trapiantata in America Julia Haart, sua seconda moglie, moglie post-carcere, racconta come è uscita dalla oppressiva comunità ultraortodossa di Monsey, nello stato di New York, cambiando vita. Il suo essere paladina femminista, la sua liberazione, il suo impegno contro il fondamentalismo religioso, e poi il clamoroso successo, come guida di Elite, la più grande agenzia di modelle del mondo, che il povero Scaglia ha comprato nel 2011 e dove l’ha messa a fare la CEO.

«Non riesco a immaginare che solo quattro anni fa vivevo in una comunità ultraortodossa!» dice lei in favore di telecamera mentre scorrazza traballante su tacchi micidiali o alla guida della sua Bentley bicolore, con l’assistente Robert, «io amo essere ebrea, ma non amo il fondamentalismo». Poi si vede lei come nuovo capo di Elite, la più grande agenzia di modelle del mondo, in versione “Diavolo veste Prada”, e schiavizza l’assistente che dichiara: «Se ti ci metti contro, Julia ti farà a pezzetti!». Lei ha quattro figli, tra cui una bisex e molto disinvolta e una invece molto religiosa con marito molto religioso che non accetta che lei si metta i jeans – e li vuole emancipare dandogli consigli sulla vita sessuale. Per ravvivare il rapporto, raccomanda, provate cose diverse, tipo il 69. A una ragazza che vuole pure lei lasciare la comunità regala un vibratore che tiene sempre in borsetta. Nella serie lei fa un peana al suo Scaglia. «Nei momenti di crisi, mi dico: tira fuori il tuo Silvio interiore!», e poi: «Ti amo tantissimo» dice lei a lui, e poi lui a lei.

La serie si apre sulla Haart Penthouse, appartamentone newyorchese di Tribeca del valore – dicono i tabloid americani, che si sa, forse esagerano sempre – di sessantacinque milioni di dollari dove viveva la coppia, mentre lei sorseggia caffè americano da una mug con enormi iniziali dorate, “JHS”. Il tormentone della serie è il librone, il memoir, che la Haart all’epoca stava scrivendo, ovviamente per sensibilizzare ed empower altre donne come lei che vogliono lasciare la comunità ultraortodossa per abbracciare la libertà. «A scuola ci insegnavano che gli uomini sono meglio delle donne» dice lei contrita; controcampo su Scaglia che scuote la testa, costernato. Lei lo scrive, pieno di riferimenti sessuali alle attività dei figli, i figli non sono per niente contenti, ma la supportano, come la supporta Scaglia, che nella serie è sempre in un angolo, e ha l’aria vagamente interdetta, va detto. Mentre la famigliola Haart si scofana gran piatti di ostriche nel doloroso percorso di empowerment; «ma c’è anche qualcosa di kosher!».

Tutto finito, adesso. Scaglia ha chiesto il divorzio e l’ha licenziata, lei gli ha fatto causa, lui la accusa di aver sottratto alle casse dell’azienda ottocentocinquantamila dollari, lei dice che l’azienda è sua per metà e che lei l’ha rilanciata. La loro storia è un piccolo Depp-Heard in miniatura. Colossali studi legali al lavoro. Qualche mese fa la sentenza del tribunale del Delaware: lei non ha nessun diritto sull’azienda. Lui è soddisfatto: «Non vedo l’ora di lasciarmi tutto questo alle spalle».

Scaglia, adesso che è tutto finito, ci vuole raccontare? E soprattutto, lei adesso ci parla ancora dalla Haart Penthouse? «No, macché, lì ci vive ancora lei, io me ne sono andato, sono in territorio neutro» dice lui ripercorrendo oggi questa storia che è finita da poco, e che pare un po’ un incubo. Incubo in cui lui è piombato dopo il periodo nero della vicenda giudiziaria, vicenda ben più grave e ben più nota (e con giustizia italiana meno celere). Quella famosa, con le accuse poi rivelatesi completamente false di frode fiscale, «quattro anni d’inferno, tra il 2010 e il 2014». Lui aveva fondato Fastweb, poi l’aveva venduta, se ne stava tranquillo in vacanza ad Antigua quando la procura di Roma spiccò un mandato di cattura. «Che non era internazionale. Anzi, forse si contava proprio sul fatto che io non sarei tornato. Invece tornai». Prende l’aereo privato e atterra a Ciampino, dove trova «una trentina di militari, di ogni possibile arma, ad arrestarmi». In manette? «No, quelle me le mettevano solo per gli interrogatori col procuratore Capaldo, lo stesso di Ilaria Capua.» Nel 2011, dopo tre mesi a Rebibbia e otto ai domiciliari, la vicenda finisce. Assolto per non aver commesso il fatto. Grande classico italiano. Bilancio? «Posso dire che la giustizia italiana funziona. Io posso dire di avere avuto un giusto processo. È il prima che non va». La carcerazione preventiva. «Non c’è nessuna garanzia per l’imputato».

Il bilancio esistenziale è più complesso. Gli effetti prolungati, tipo Long Covid. «Ho un po’ perso la testa» ammette oggi, e Scaglia conferma quello che un po’ tanti pensavano, e cioè che il sobrio, il piemontese-svizzero nerd Silvio Scaglia si fosse un po’ buttato tra le braccia di Julia Haart in una specie di rimonta dopo le angherie del carcere, iniziando una vita da soap opera che nessuno avrebbe previsto. Elicotteri, attici, ville agli Hamptons. Lei viene fermata al JFK con centocinquantamila dollari di accessori non dichiarati. Una pericolosa deriva Gianluca Vacchi. Senza balletti per fortuna. «In realtà io cercavo di minimizzare il danno, nella serie, come vedrà, sto sempre in un angolo a far tappezzeria. Era lei, che mi disse: io voglio diventare una celebrity. Lo so, oggi viene da ridere anche a me se ci penso».

Ma dove l’ha conosciuta questa signora? Si dice che fosse direttrice creativa di La Perla, il marchio di intimo italiano che a un certo punto, nel post-carcere, Scaglia rileva, dopo aver acquistato due anni prima “Elite”. Sì, perché dopo il carcere c’è anche un periodo di shopping compulsivo: prima appunto “Elite”, nel 2011, e due anni dopo “La Perla”. Dove lei era direttrice creativa? «Ma quale direttrice creativa? No, no, questa è una delle tante bugie. L’ho conosciuta a Tokyo nel 2015. Oggi so con certezza che Julia pagò qualcuno per essere presentata a me e lavorare a “La Perla”. Julia del resto ha ridefinito il concetto di fake it until you make it. Tutta la sua vita è una balla. Aveva solo un bel progetto di scarpe» dice Scaglia. Ma quali, quelle biodegradabili che si vedono nella serie, e che dovrebbero diventare concime per fiori?» Scaglia ride. Rido pure io.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

da “Dinastie. Da Prada ai Ferragnez, ritratti della vera nobiltà italiana. Quella senza blasone, di Michele Masneri, Rizzoli, pagine 182, euro 17,00

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