Impressioni di settembreIl memoir di Mauro Pagani racconta il mondo strano e mitologico del rock italiano

Nel suo “Nove Vite e Dieci Blues” (Bompiani), il celebre musicista e compositore ritorna sulla sua vita straordinaria e, soprattutto, sulla scena disordinata e ribollente di quegli anni Settanta fatta di entusiasmo e voglia di sperimentare

di Eric Nopanen, da Unsplash

Chiedi cos’era il rock? Un altro mondo. Che non c’è più. Passato. Storia. Ricordo di uomini anziani e superstiti. Un gorgo meraviglioso, nel quale lanciarsi per arrivare nella terra di Chissadove. Come è successo a Mauro Pagani da Chiari, vicino Brescia, figlio di un valoroso aviatore della Seconda Guerra Mondiale poi rientrato nella sua officina meccanica e divenuto padre severo ed esigente di uno di quei ragazzi che al tempo si definivano “irrequieti”.

S’intitola “Nove Vite e Dieci Blues” (Bompiani) il suo memoir che racconta la tormentata, magnifica storia d’una vita dentro la musica, quella italiana, quella internazionale, quella del mondo, quella che in buona parte non c’è più e in ciò che ne è fiorito nel nostro presente, tanto diverso.

A 75 anni Mauro si ferma ad annusare il profumo delle rose, ad ascoltare la magia di un suono, a recuperare dai postumi d’una malattia difficile e a ricordare la sua lunga corsa nell’infinito amore per la musica. Si parte – e questo davvero è struggente, perché impalpabile, eppure così reale – si parte dal sogno. Quello dei ragazzini dei primi anni Sessanta, soffocati, incastrati in qualche nodo di provincia e per i quali già Brescia è la città dalle mille luci, con quel quartiere a luci rosse del Carmine, pieno di soldatini in tempesta ormonale. Mauro in erba è fatto di umiltà e desideri, la famiglia per lui è una gabbia ma anche un rispetto, l’idea è quella d’arrangiarsi e d’andare in cerca – di cosa? – della libertà ovviamente, qualsiasi cosa fosse e significasse.

Per molti giovanissimi del momento significava soprattutto la musica: Mauro ha studiato violino, è istintivamente portato a scoprire e a far propri tutti gli strumenti. Perciò diventa un ragazzo che scova facilmente le possibilità di farsi strada, in una scena germinale e vivacissima, nella quale i gruppi avevano nomi come Araldi, Topless, Dalton o Wow. È il Nord Italia prima del Sessantotto, tutti senza una lira, tutti in continuo movimento, col vantaggio a portata di mano di poter sempre “conoscere”: si conosceva quello, s’incontrava quell’altro, si faceva amicizia con un tipo, si creava una situazione. Era più facile, accessibile, normale – e le righe di Pagani riescono a delineare quella condizione.

Tutto era relazione, caso, contatto, sintonia, opportunità, quasi sempre senza progetto, ma per fortuna, empatia, coincidenza. Un orizzonte disordinato e ribollente, in cui la musica è onnipresente e spesso in primo piano e dentro il quale nasce un gruppo casualmente perfetto e in sintonia coi tempi, che si dà lo stravagante nome di Premiata Forneria Marconi e trova in un impiegato dell’Enel, Franco Mamone, il manager vulcanico. Si prova per un po’, si tenta un repertorio, si compra il pulmino Ford Transit d’ordinanza, croce e delizia d’ogni rock band: ci si mette per strada.

I compagni sono i Quelli – Di Cioccio, Mussida, Premoli e Piazza, la band che suonava dietro a Mina e a Battisti e il decennio nascente adesso è quello dei Settanta, dove le balere si chiamano Kooky, Kursaal, Girarrosto, Escudero, Wanted, o Paips. Il “Festival di musica di avanguardia e di nuove tendenze” di Viareggio del ’71 viene vinto in scioltezza e il primo 45 giri è un signor singolo che porta su una facciata “La Carrozza di Hans” e sull’altra “Impressioni di Settembre”, scusate se è poco.

Mario è il polistrumentista e il paroliere, incaricato di mettere in forma di canzone le suggestioni condivise di una generazione, dando libero sfogo alla fantasia e al riemergere delle citazioni accumulate leggendo. La base adesso è Milano, città di mala e di prostituzione: Mauro va a vivere in una comune urbana, e sono sempre gli incontri a definire il destino – come quello con Claudio Rocchi, il giovanissimo folletto che è già un sacerdote metropolitano. Il gruppo decolla, suona una musica adorata dai ragazzi italiani, diventa colonna sonora di un tempo, L’album d’esordio, “Storia di un minuto” va dritto al primo posto delle classifiche. Della PFM si parla come della band all’altezza di quelle inglesi – quasi un miracolo, un’agnizione. Cominciano i tour internazionali, la macchina produttiva cresce a dismisura, arriva addirittura a spalancarle le braccia l’America.

Ci sono i cambi di formazione, i mille concerti, mentre il terrorismo offusca l’aria italiana e a corrente alterna prosegue la difficile, inconcludente relazione della nuova musica con la politica, quando il Movimento non smetteva di considerare la chitarra elettrica come uno strumento del capitalismo.

Mauro non si ferma mai: suona, collabora, conosce, scopre. Ha solo trent’anni quando lascia la band, dice di no alla routine, non accetta di snaturarsi, vuole nuove esperienze, non rinuncia a sperimentare. Demetrio Stratos, il nuovo inizio da musicista adulto, la passione per la musica del mondo e soprattutto l’incontro con Fabrizio De André, fatale fratello maggiore. E poi Gianna Nannini, Ornella Vanoni, Vecchioni, Ranieri, Guccini, Vasco, Ligabue e molti altri ancora.

Una vita così è uno scivolo continuo, come all’Aquafan, dove non ti fermi finché non arrivi in fondo, all’ultimo tuffo. Adesso Mauro galleggia nell’acqua placida della memoria, convinto sia arrivato il momento di riordinare, valutare, allineare, prima che di fare ancora e affastellare.

Certo, se lo chiamano, non resiste e va, sale senza pensarci sul palco di Sanremo ’22 (dopo aver fatto da direttore artistico alla manifestazione) e sa di non dover dare spiegazioni. Col suo libro racconta com’è stato, bellissimo e complesso e come adesso sia il tempo di altre cose. Eppure suona ancora strano che un’esistenza così, con tutto ciò che ha traversato, possa diventare storia. Sembra sempre troppo presto, ci sarebbe voglia di resistere – in fondo in quegli anni chi mai ci avrebbe pensato? Invece è così, ecco cos’ha significato vivere da musicisti nel turbine del ventesimo secolo.

Va raccontato, cosa fosse quell’Italia, quelle città, quelle notti. Un resoconto necessario, di cui si nutriranno coloro che sono arrivati dopo. Anche loro sul punto di liberare l’energia, quella insopprimibile voglia di andare, darsi da fare, scoprire cosa li aspetti, dietro tutte le porte del mondo.