I choose meDiciamocelo pure, l’ultimo album di Kendrick Lamar non è un disco normale

“Mr Morale & The Big Steppers” è uscito 1.855 giorni dopo il lavoro precedente del rapper californiano (che ha già vinto un premio Pulitzer nel 2018). Ed è un oggetto culturale imponente e complicato

AP Photo/Scott Garfitt

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Diciamocelo francamente, Mr Morale & the Big Steppers, il nuovo album di Kendrick Lamar, non è un disco normale, ma si presenta piuttosto come un oggetto culturale imponente e complicato, che provoca, anche nel non troppo coinvolto ascoltatore da questa parte dell’Oceano, un senso di perplessa, preoccupata inadeguatezza, che non s’affievolisce allorché già da una ventina di minuti ci si è inoltrati nell’ascolto.

È lampante, anche perché non fanno altro che ripetervelo, che – diamine! – siamo al cospetto di un’opera sostanziale, di un incisivo segno dei tempi che, tra l’altro, contiene prodromi ed effetti d’una mezza dottrina d’infuocate diatribe psicosociali. Eppure, s’ostina a ripetersi l’ascoltatore smarrito, questo è pur sempre solo e soltanto un album di canzoni, concepito per essere venduto quanto più possibile e programmato nelle radio, sebbene l’autore sia il primo rapper a cui, con botto sbalorditivo, venne accordato nel 2017 il premio Pulitzer per il valore rappresentativo della sua opera Damn, un moloch della black culture del xxi secolo e dei tellurici sbattimenti che la costellano – razza, responsabilità, procrastinarsi degli errori.

Kendrick venne fuori in un momento magico dell’hip hop, mentre Los Angeles tornava sulla mappa per qualcosa di meno grossolano delle sparate gangsta e si faceva strada l’elettrizzante contraddizione della crew Odd Future, con la sua bizzarra fusione nero-bianco generata non più da radici sottoproletarie, ma dalla middle class cosmopolita a cui appartenevano diversi suoi componenti. Kendrick, come l’altro genio nascente in città, Frank Ocean, non era un vero e proprio membro della crew, ma entrambi le gravitavano attorno e con un paio di dischi sensazionali come Channel Orange e good kid, m.A.A.d city misero in chiaro d’essere già dei fuoriclasse spontanei. Ocean però era un genio disciolto nell’estetica, un Renaissance Man all’eterna ricerca dell’irraggiungibile perfezione. Kendrick invece era uno radicato nella realtà, un vulnerabile figlio delle frustrazioni californiane, con in testa il bacillo vibrante del rigetto nero, di cui si percepiva prodotto e di cui voleva diventare un originale vendicatore.

Adesso, guarda caso, proprio la ricerca della verità e il coraggio della sua rivelazione sono gli asset del lavoro che Lamar presenta 1.855 giorni dopo l’uscita dell’ultimo album, un lasso di tempo coinciso in pubblico con la sua santificazione, ma nel privato con l’emersione di issues tutt’altro che lievi, che includono un blocco creativo – superato, pare, per intercessione del Signore – e una galleria di guasti psicologici sui quali i lavori sarebbero ancora in corso. Materia confluita per intero nei settantatré minuti delle diciotto tracce di Mr. Morale, al punto da rendersi, appunto, intimidente, per quant’è zeppa d’idee, concetti, provocazioni e soprattutto per quanto è seria, senza mediazioni, avulsa dalla malconcia dimensione pop. Anzi, la visione “culturale” di Kendrick è proprio questa, assoluta – senza stadi espressivi superiori a cui aspirare. È qui che lui gioca il gioco della verità e della qualità della natura umana. Arte, in una parola. Oltre la quale non c’è un’altra arte, superiore. Un disco così, allora, diventa una questione seria. Tanto più quando l’autore intende parlare della sua condizione: la celebrità non più come obiettivo, ma come fardello, che ti opprime e ti possiede fino a farti agire come lo schiaffeggiatore Will Smith. Il disturbo della personalità d’essere neri e famosi, dopo essere stati ultimi e reietti. Rispunta l’interrogativo: sarà tutto vero?

In Mr. Morale Kendrick ci dà dentro con piglio messianico. Non può condividere il lavoro con altri che se stesso e le apparizioni sono meramente funzionali al progetto: Beth Gibbons, vocalist dei Portishead, i rapper Ghostface Killah, Sampha e il malfamato Kodak Black, un soggetto pericoloso con precedenti per reati sessuali – ma Lamar sfida le critiche, lui crede che la redenzione sia possibile e perché non cominciare da un collega malfamato?

Soprattutto nell’album ci sono figure che giocano ruoli drammaturgici, connessi ai suoi significati: la compagna di sempre di Kendrick, Whitney Alford, narratrice e voce della coscienza che tenta di preservare il suo uomo dalle ipocrisie. O il vecchio scrittore motivazionale tedesco Eckhart Tolle, autore d’una vendutissima bibbia del self-help, Il Potere di Adesso, guida all’illuminazione spirituale che Lamar ha preso sul serio al punto da invitarlo a pronunciare sentenziosi aforismi cui reagisce con foga e certamente con partecipazione. O la splendida attrice Taylour Paige (Ma Rainey’s Black Bottom), titolare della superba performance We Cry Together, duetto recitato con Kendrick e punto più alto dell’album, travolgente zibaldone delle chiacchiere tra due barflies in una surriscaldata cucina del ghetto, dove, tra una maledizione e l’altra, si litiga su tutto, da Donald Trump a Harvey Weinstein fino all’invidia tra le donne nere, e ogni argomento è trattato con disperazione, incomprensione e indolenza, ricreando l’ipnosi da rap-drama dell’Eminem di Kim.

Ma ormai la bocca di Kendrick è spalancata e mitraglia rime e barre sulle vergogne del presente americano – razza, discriminazione, menzogna, sopraffazione – inoltrandosi (Auntie Diaries) in un terreno vergine per il rap come la transessualità, confessando di sé e del suo passato omofobo, oppure di quanto detesti i bianchi che parteggiano per Black Lives Matter («one protest for you, 365 for me») e ancora di più i neri che lo fanno senza capire di che cosa si tratti veramente – e poi fra questi ci iscrive pure se stesso.

Nel finale Kendrick vuota il sacco: in Mother I Sober la schiavitù e la violenza sessuale diventano facce dello stesso malanno e dello stesso dolore, e lui si sporca le mani, mettendo in piazza lo stupro di sua madre e gli abusi di cui è stato vittima da bambino. Le cose non stanno in ordine e nemmeno ci vanno, il caos rende la vita balbettante, indecifrabile. Niente da fare: «Non posso piacere a tutti» è il suo mantra e le ultime parole sono «I choose me, I’m sorry», scusate, ho scelto me stesso – provo a salvarmi, la terapia è in corso, la politica e la società mi chiamano, ma la verità che mi fa soffrire è l’incapacità di comprendere l’unità essenziale: la mia famiglia, dove certi errori non sono consentiti, dove devi scegliere se diventare cacciatore sessuale di corpi bianchi, o essere padre e marito, dove non si può mentire, dove non si possono ignorare gli amici, dove gli sbagli diventano tossici, dove conta più la dignità che essere il rapper più famoso del mondo.

Strano che un album che ammette confusione e pentimento, assuma un simile valore profetico, peraltro legittimato da una potenza espressiva ineguagliabile. Man mano che ci s’inoltra nella saga di Mr. Morale, la connessione tra la vicenda personale e l’esperienza collettiva dei neri d’America diventa trasparente. «Il gatto ormai è scappato / io non sono il vostro Salvatore / per me sarebbe altrettanto difficile che voler bene ai vicini», dice in Savior provando a definire l’effettivo stato mentale di una celebrità afroamericana oggi – si tratti di lui, di LeBron James o di Oprah: siamo saliti così in alto che guardare in basso ci provoca le vertigini e tutto si confonde. L’hype è una droga, bisogna disintossicarsi per non finire come Kanye West, perduto nelle spire autodistruttive.

Nelle fotografie di copertina realizzate da Renell Medrano, Kendrick posa in una camera da letto dai muri scrostati, la moglie sul letto in canottiera, i bambini in braccio, una corona di spine sulla fronte e una pistola nella tasca dei pantaloni. Contraddizione, dolcezza, paura. Successo e gabbie. Adulazione. amore e possesso. Il piccolo uomo Kendrick che girava per Compton covando un sogno enorme, può contenere una sfida del genere? Solo se riesce, con sforzo titanico, a darle forma d’arte, che è esattamente dove risiede quest’album. La congiunzione tra l’imperfezione dell’uomo-Kendrick e lo splendore di Lamar-superstar sta nell’esplosivo talento di cui dispone e nella sua capacità di resistere alle tentazioni, alle ambiguità e all’horror vacui di tutte le ville con piscina che si è comprato e nelle quali non si è nemmeno mai tuffato.

«Scusate, non ho salvato il mondo», mugola Kendrick. Non scherza: aveva sistemato l’asticella in alto. Salvare, pacificare, illuminare. Davanti ai frammenti dello specchio si guarda e non abbassa lo sguardo. Dietro di lui, dal letto sfatto, la sua compagna lo ammonisce: umiltà, misura, realtà. Onestà. Dopo 1.855 giorni, Kendrick risponde all’appello con questo album. Un oggetto di cui bisogna decidersi se fidarsi, se accettarne la messa in scena, come con un romanzo di Fëdor Dostoevskij. È qui che si gioca l’esperienza in oggetto che, come dicevamo in apertura, non è una cosa che si riesca a prendere alla leggera.

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