L’eccellente Bill Kristol, commentatore politico di centro-destra, già fondatore del “Weekly Standard” e ora a “The Bulwark”, ha fatto la provocazione giusta, twittando una frase da “Democrazia in America” di Tocqueville: «Se mi chiedessero a chi io attribuisca il merito della singolare prosperità e della crescente forza di questo popolo, io risponderei alla superiorità delle sue donne».
E prima della citazione ha scritto semplicemente tre nomi: Cheney. Hutchinson. Pelosi. Ovvero la Speaker democratica che ha fortissimamente voluto l’istituzione della Commissione per indagare i moventi e le responsabilità all’origine dei fatti del 6 gennaio 2021, con l’attacco insurrezionale armato al Campidoglio, dove il vicepresidente degli Stati Uniti Mike Pence doveva vidimare la regolarità delle elezioni di novembre e la successione di Joe Biden sulla poltrona di Donald Trump alla Casa Bianca.
Poi Liz Cheney, ovvero la vicepresidente della Commissione in questione, anima e motore dei lavori in corso che stanno rivelando all’America un succedersi di fatti che provocano stupore e indignazione, nel constatare che quel giorno non si trattava di proteste spontanee, ma della delirante orchestrazione di un colpo di Stato che ora può condurre all’incriminazione di Trump per attentato alla Costituzione, seppellendo ogni sua possibile disegno di ritorno sulla scena politica nazionale.
E Liz Cheney, repubblicana indipendente da sempre in aperto e vocale contrasto con la visione trumpiana, si sta trasformando nel martello che, udienza dopo udienza, pianta i chiodi nella croce dell’ex-presidente smascherando, a colpi di testimonianze, la premeditazione del piano che provocò gli eventi di quella giornata, nonché le sgangherate strategie di Trump e soci, in testa a tutti Rudy Giuliani – suo spin doctor di mefistofelica approssimazione.
Proprio il dato che la scelta della Pelosi sia caduta sulla figlia dell’ex-numero due di George W. Bush suggerisce un’astuzia sottilmente femminile nel sottoporre Trump a un atroce rosolamento, condotto da una personalità con quel nome, quell’appartenenza e quella rappresentatività d’una certa America conservatrice.
Infine la terza protagonista di queste ore, nella messinscena che ricorda un dramma elisabettiano, per quanti filoni narrativi si intrecciano, avvicinandosi a un epilogo che sarà pirotecnico. Nei giorni dell’atroce negazione della autodeterminazione femminile prodotta dalla Corte Suprema con la cancellazione della legge che preservava il diritto d’aborto oltreoceano, donne di caratura preziosa stanno inchiodando il volgare spirito di sopraffazione maschile di cui è stata preda l’istituzione principale del paese, ovvero la sua presidenza.
A gettare benzina sul fuoco delle asserzioni di Liz Cheney e della sua architettura della colpevolezza di Trump, arriva la testimonianza di Cassidy Hutchinson, 25 anni, ex-assistente di Mark Meadows, capo dello staff della Casa Bianca nella scorsa amministrazione. Hutchinson ha raccontato di fronte alla commissione della Camera come Donald Trump fosse al corrente, prima dell’irruzione al Congresso, delle intenzioni bellicose dei manifestanti e del fatto che disponessero di armi. E che per questo motivo avrebbe comandato la rimozione dei metal detector stradali, che avrebbero ostacolato i sostenitori che si stavano radunando a Washington. «Non me ne frega un cazzo se sono armati. Lasciate che la mia gente entri. Marceranno fino al Campidoglio», sono le parole riportate dalla Hutchinson, che nell’udienza ha parlato con tranquillità, ricordando d’essersi «spaventata per quel che sarebbe potuto accadere», in particolare dopo la conversazione, precedente all’irruzione al Congresso, a cui avevano partecipato Rudy Giuliani e il suo capo Meadows, che avrebbe detto che «le cose sarebbero potute mettersi molto male», in quella che Giuliani sosteneva sarebbe stata «una grande giornata».
La testimone ha inoltre riferito che Trump avrebbe voluto raggiungere personalmente Capitol Hill durante l’assalto e che gli uomini della sicurezza avrebbero provato ad accontentarlo, solo alla fine decidendo di soprassedere: «Sono il fottuto presidente, portatemi là!», sarebbe sbottato Trump, afferrando il volante di The Beast, l’auto blindata presidenziale, in una scena da “Dottor Stranamore”.
Sulla sua piattaforma Truth Social, Trump ha reagito alla testimonianza della Hutchinson bollandola di «falsità» e «accuse ridicole». Liz Cheney invece l’ha ringraziata per il coraggio: «La nazione è tenuta in vita da chi conosce la differenza tra giusto e sbagliato. Gli americani sappiano che ciò che oggi ha fatto Hutchinson non è facile».
A botta calda, la reazione di Bill Kristol appare di pacata lungimiranza. Segna il confine tra deliri di onnipotenza e capacità speculativa al cospetto della realtà. Perfino l’altra villain di queste ultime ore americane, Ghislaine Maxwell, schiacciata dalla condanna a vent’anni di galera per la complicità nelle malefatte sessuali del fu Jeffrey Epstein, acquisisce una dimensione vagamente sacrificale.
Nel silenzio delle opinioni inespresse, il raffronto tra forza e ragione, il cui interstizio ha la forma della sopraffazione, descrive la natura perenne di un equilibrio che sovente continua a essere illusorio.