Il lungo camminoCos’è l’Illuminismo industriale, che ha regalato all’Occidente gli ideali di progresso e libertà

Secondo la monumentale ricostruzione storica di Walter Scheidel (Luiss University Press) le origini del benessere e dell’innovazione tecnica e scientifica del Vecchio Mondo sono da ricondurre a una fortunata coincidenza di idee, aspirazioni e situazioni economiche

da Unsplash

Illuminismo industriale

L’Europa latina presentava condizioni di vario tipo. La Rivoluzione industriale britannica trovò le sue radici in una serie molto specifiche di circostanze che Mokyr chiama “Illuminismo industriale”. Si basava sui capisaldi dell’Illuminismo in generale – misurazioni, esperimenti, replicabilità, intelligibilità della natura – ma anche sulla loro applicazione pratica e sul loro aspetto economicamente remunerativo.

Le scienze applicate furono parte integrante di tale processo. L’Illuminismo industriale consentì il progresso materiale utilizzando la sempre maggior comprensione della natura e rendendola accessibile a chi poteva usarla per scopi produttivi. Gli obiettivi chiave erano la risoluzione di problemi concreti e il taglio dei costi.

La democratizzazione della conoscenza scientifica sospinse il progresso. Nella sola Francia del diciottesimo secolo c’erano cento accademie locali. Gran parte di questi enti pubblicavano le proprie ricerche. Le università divennero meno importanti per il progresso delle conoscenze utili: diminuì il numero degli scienziati provenienti dalle principali istituzioni, mentre in genere gli ingegneri non avevano un’istruzione di alto livello. La conoscenza si diffondeva con le pubblicazioni specializzate, i resoconti scientifici, i quotidiani, le conferenze e le accademie, «molte delle quali sfuggivano alle norme restrittive imposte da Stato o religione».

Con la loro diffusione le informazioni raggiungevano anche gli uomini delle classi più umili, consentendo loro di partecipare alle imprese scientifiche, che privilegiavano ricerche con possibili applicazioni pratiche. Quest’apertura non fu uguale in tutti i paesi. Da ogni punto di vista, la Gran Bretagna ebbe un ruolo pionieristico. La sua tradizionale istruzione elitaria aveva ben poco da offrire a scienziati e ingegneri. La scienza era ancora abbastanza semplice da essere comprensibile anche a chi aveva solo un’istruzione di base. A beneficiarne fu la Gran Bretagna: le iscrizioni alla scuola primaria e il tasso di alfabetizzazione erano molto alti, creando un vasto bacino di lavoratori qualificati. Anche i lavoratori comuni come i costruttori di mulini potevano accedere a conoscenze applicate e alla meccanica teorica. L’alta alfabetizzazione e comprensione dell’aritmetica, frutto della Riforma e dello sviluppo economico della regione, si rivelarono precondizioni cruciali.

Ne scaturì inoltre un gruppo di poche migliaia di ingegneri, chimici, medici e filosofi naturali che ebbe un’influenza enorme. Potevano contare su qualche decina di migliaia di lavoratori qualificati che offrivano loro strumenti e abilità tecniche; tra di loro c’erano meccanici, costruttori di macchinari e operai metallurgici. Nel diciottesimo secolo queste competenze si diffusero al punto da non essere più ricompensate con salari speciali. Questo contesto tanto favorevole permise alle “macroinvenzioni” – innovazioni che cambiavano nettamente il modo di fare qualcosa – di essere affiancate e calibrate da un numero ancor maggiore di “microinvenzioni” dovute alla ricerca di continui miglioramenti.

La scienza formale non diede un grande contributo diretto alle prime fasi di un’industrializzazione dall’approccio tanto pratico. Il motore a vapore si basava su conoscenze non derivabili dalla mera osservazione, ma i progressi nella lavorazione del ferro e del cotone non erano debitori dell’avanzamento della scienza. Il contributo della scienza era soprattutto una questione di metodo: la sperimentazione controllata passò dalla scienza alla tecnologia.

La prima Rivoluzione industriale sfruttò al meglio il libero flusso di informazioni, tramite pubblicazioni di meccanica, registrazioni di brevetti, manuali e studi tecnici accessibili anche a un pubblico non elitario. Questa apertura non solo permise la diffusione di conoscenze pratiche, ma rese anche la Gran Bretagna un approdo più appetibile per gli emigranti. Dopo aver attratto per molto tempo esuli intellettuali o religiosi provenienti dal continente, ora attirava detentori di brevetti e affaristi che potevano sfruttare l’abbondanza di capitale e il suo sistema per registrare e proteggere i diritti di proprietà.

L’economia politica ebbe un ruolo importante. La legge sui brevetti risaliva al primo diciassettesimo secolo e contribuì a dare garanzie agli inventori che avrebbero goduto i frutti della loro fatica. I brevetti al tempo stesso proteggevano e diffondevano l’innovazione. Le autorità britanniche, un’élite strenuamente materialista, in genere si schieravano con gli interessi delle industrie, anche se significava prendere decisioni impopolari. Si opponevano a nuovi regolamenti e annullavano quelli che ostacolavano il cambiamento, non ascoltando le lobby in guerra contro le macchine: le rivolte luddiste furono soprattutto un segno di impotenza. Riconoscendo esplicitamente il ruolo del sistema di Stati competitivo europeo, il governo affermò perfino che l’industria delle macchine aveva bisogno di varcare i confini per prosperare. La volontà politica contribuì pertanto a creare un contesto nel quale le conoscenze utili e dirompenti «venivano usate con un’aggressività e un focus senza precedenti in nessun’altra società».

Gli innovatori della tecnologia furono tanto influenti anche grazie al loro rapporto con gli affaristi. Fu soprattutto l’industria privata, e non lo Stato, a patrocinare le loro imprese. La fusione tra un’ideologia dominante basata sullo sviluppo commerciale e le innovazioni della meccanica mise in collegamento capitale e scienze applicate. Questo processo non solo favorì un contesto che apprezzava i miglioramenti tecnici, ma fece collaborare ingegneri e investitori. Gli uomini d’affari apprendevano i princìpi della meccanica tramite la scuola e la lettura, ed erano ben accetti dalla cultura scientifica. Imprenditori e ingegneri operavano in un sistema di competenze e valori condivisi, dove «la cultura industriale si sposava con la conoscenza scientifica e la tecnologia». Tra tecnici, imprenditori e scienziati c’erano meno ostacoli rispetto al continente, e ci si concentrava di più sui risultati pratici.

L’interesse per la scienza, vero o falso che fosse, divenne un tratto distintivo «dell’alta società», proprio come era divenuta di moda «una mentalità volta al progresso». La conseguenza fu il legame «tra savants e fabriquants», una rarità nelle società dove le distinzioni di classe e di status facevano da freno. In Spagna, ad esempio, la cultura aristocratica si oppose alle novità, mentre in Francia la rigida piramide dello status separava agricoltura e commercio.

Queste differenze ci dimostrano ancora una volta l’importanza del pluralismo politico in Europa. L’élite della Francia pre-rivoluzionaria non mollava la presa sull’istruzione, mentre erano i finanziamenti dello Stato a creare una nuova élite di scienziati al suo servizio. La competenza ingegneristica veniva considerata «proprietà dello Stato, al servizio dell’interesse nazionale». Un approccio potenzialmente promettente, ma che subordinava la scienza ai vezzi della politica, che in genere preferiva la conservazione dello status quo. La dipendenza dallo Stato costringeva gli scienziati a rapportarsi personalmente col potere politico, invece di collaborare maggiormente con gli industriali come accadeva in Gran Bretagna. In Gran Bretagna comandava un’élite che privilegiava gli affari, mentre i re di Francia erano troppo deboli per accantonare gli interessi personali anche quando l’intenzione era quella di mettere in atto delle riforme.

Il periodo tormentato della Rivoluzione francese e della restaurazione non facilitò le cose, anzi rallentò il progresso. La guerra impedì la diffusione delle novità britanniche in Francia in un periodo cruciale. Nel 1793 vennero abolite le accademie scientifiche, anche se quella di Parigi venne presto riaperta. Dopo il 1815 il clero ritornò a una posizione di preminenza nel sistema educativo, con l’incarico di promuovere «la religione e l’amore per il re»: gli insegnanti della scuola primaria dovevano sottoporsi a test di rettitudine religiosa e l’istruzione scientifica subì una battuta d’arresto malgrado l’interesse pubblico. Vennero censurati i libri che ispiravano «sentimenti di animosità contro le classi elevate», mentre lo sviluppo industriale veniva visto con sospetto, quasi favorisse la sovversione politica. Anche l’educazione superiore finì nella sfera d’influenza del clero. Solo la Rivoluzione di luglio del 1830 pose fine a questo ostracismo.

La sovranità era la chiave. In Gran Bretagna la sicurezza – sia nei confronti dei nemici stranieri, sia internamente, in materia di diritti di proprietà – e l’economia politica che sosteneva furono decisive per l’avvento di un’innovazione tecnologica trasformativa, e per accedere al commercio internazionale e al carbone britannico: tutti questi input erano necessari perché uno sviluppo continuativo fosse sostenibile. Anche se lo Stato britannico non diede un grande contributo diretto al progresso scientifico e tecnologico, di certo non lo ostacolò. Nel complesso, contribuì alla creazione di un clima favorevole all’innovazione e alle sue applicazioni pratiche. Da questo punto di vista, si distinse da molti Stati dell’epoca. Se l’Europa latina fosse stata dominata da una sola economia politica egemone, non sarebbe potuto emergere nessun altro contendente dello stesso livello.

Valori
L’ascesa di una cultura illuminista basata sulla conoscenza e la sua applicazione pratica comportarono inevitabilmente dei cambiamenti nel modo di considerare imprenditoria e dignità di lavoratori e artigiani. Dobbiamo chiederci in che misura questi cambiamenti valoriali abbiano favorito uno sviluppo economico trasformativo. Deirdre McCloskey ha elaborato una tesi coraggiosa che pone i valori al centro della modernizzazione e della Grande Fuga. Nella sua ricostruzione, «furono le idee liberali a causare l’innovazione» necessaria a questo processo. Nel 1700, la classe media cominciò a parlare e a esprimersi in modo nuovo. «L’opinione generale divenne sempre più favorevole alla borghesia, e soprattutto favorevole al suo modo di commerciare e innovare», di conseguenza gli scambi e gli investimenti nel capitale umano crebbero di volume.

Fu il cambiamento dei valori a determinare tale espansione, e non viceversa. Questo portò alla «rivalutazione borghese», incarnata da una nuova retorica che difendeva l’arte di fare affari: il discorso aristocratico in precedenza l’aveva stigmatizzata come un’attività volgare, ma ora diveniva una pratica accettata, o perfino ammirata. Questo nuovo modo di pensare consentì alla borghesia di entrare a far parte della classe dominante, portandole una ventata di novità e un inedito spirito competitivo. Nel complesso, la principale forza motrice di questo cambiamento fu l’attribuzione di libertà e dignità alle persone comuni.

Secondo McCloskey, questo processo seguì una serie di tappe. La Riforma, la crescita del commercio, la frammentazione dell’Europa e la libertà delle sue città consentirono ai borghesi olandesi di godere di libertà e dignità. Col tempo, l’influenza olandese portò all’emulazione delle sue pratiche su commercio, banche e debito pubblico, e grazie anche alla diffusione della stampa la borghesia britannica raggiunse gli stessi traguardi, dando il via alla moderna crescita economica.

Le quattro R – lettura (reading), riforma, rivolta (nei Paesi Bassi) e rivoluzione (nel 1688 in Inghilterra) – diedero origine nell’Inghilterra del tardo diciassettesimo secolo alla quinta e decisiva R, la rivalutazione della borghesia, una «riconsiderazione egalitaria della gente comune».

La democratizzazione della Chiesa dovuta alla Riforma diede coraggio ai comuni cittadini; il protestantesimo del nord favorì inoltre l’alfabetizzazione. Per McCloskey anche la frammentazione politica fu necessaria perché avvenissero tali processi: si trattava di miglioramenti che funzionavano meglio su scala ridotta. Furono però le idee politiche, anzi, le idee in genere a determinare il cambiamento: «Fu necessario, e forse sufficiente, un cambiamento retorico». McCloskey documenta inoltre nel dettaglio l’emergenza di una retorica pro-borghese nella Gran Bretagna del diciottesimo secolo.

Questa prospettiva idealista, per quanto insolita per un’economista, è comunque compatibile col concetto che il policentrismo politico sia stato essenziale. Così come il successo della Riforma fu una contingenza della mancanza di un impero egemone, e il sistema di Stati protesse la crescita della ricchezza dovuta ai commerci, l’espansione del commercio internazionale derivò dall’espansione via mare dettata dalla frammentazione competitiva. Lo stesso vale per i cambiamenti nella retorica. Lo dice la stessa McCloskey: fino a quando le norme e le opinioni sociali riguardo agli affari furono controllate da élite aristocratiche, cristiane o confuciane, il loro dominio ostacolò «la marcia verso la modernità, che arrivò quando vennero riconosciute l’importanza del progresso e la dignità della vita economica delle persone comuni».

McCloskey ribadisce che il concetto in grado di far diventare egemone una classe in precedenza subalterna fu la «libertà». Difficile immaginare che grandi imperi tradizionali dalle classi dominanti arroccate – che si trattasse di ereditieri aristocratici, élite di guerrieri o di ricchi burocrati – potessero stabilire o accettare un cambiamento nei valori, soprattutto a favore di quelli riguardanti la libertà e la dignità della borghesia mercantile. Il tardo impero romano e la cristianità del medioevo non furono certo periodi adatti a una rivalorizzazione del genere, così come l’egemonia intellettuale e morale confuciana, volta a limitare gli interessi dei mercanti.

Provare una negazione non è semplice: non possiamo dimostrare che sia stato l’impero in sé a impedire un tale cambiamento valoriale.

Storicamente si è verificato solo nell’Europa nordoccidentale e in condizioni estremamente specifiche, profondamente segnate dalla natura policentrica della formazione degli Stati e del potere sociale: secondo la ricostruzione di McCloskey, è accaduto a partire dalla fine del sedicesimo secolo nei Paesi Bassi, dalla fine del diciassettesimo secolo in Inghilterra, nel diciottesimo secolo in New England e Scozia, e dopo il 1789 in Francia. McCloskey sottolinea con estrema cautela che non significa che nelle altre culture ci fossero «ostacoli permanenti e insormontabili a un miglioramento rapido», ma che fossero prive delle precondizioni necessarie. La variabile cruciale fu la frammentazione competitiva.

Mi fermo qui. In linea di principio niente ci impedisce di approfondire ulteriormente gli approcci ancor più idealisti, su tutti la celebre tesi di Max Weber sull’etica protestante, ma ci costringerebbe a ripetere le stesse argomentazioni. La diffusione e il successo di questi atteggiamenti e sistemi valoriali dipesero esclusivamente dalle circostanze che resero possibile la rivalutazione spiegata da McCloskey: non possono essere considerati autonomi e ancor meno esogeni.

da “Fuga dall’impero. La caduta di Roma e le origini della prosperità occidentale”, di Walter Scheidel (traduzione di Paolo Bassotti), Luiss University Press, 2022, pagine 684, euro 35

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