Il ritiro del reRoger Federer è stato il dio del tennis, ma più delle vittorie ricorderemo la sua classe

Pur avendo vinto 20 Slam, 103 tornei, 1245 partite e dominato per anni il circuito Atp, il tennista svizzero ci ha insegnato a sopravvivere alla sconfitta, a non farsi divorare dal demone dell’insoddisfazione, svuotando il suo gioco di qualunque foga agonistica e lasciandoci solo pura arte da ammirare punto dopo punto

LaPresse

It was an early morning yesterday
I was up before the dawn
And I really have enjoyed my stay
But I must be moving on 

Roger Federer è uno degli esempi che porto a me stesso quando devo ricordarmi che nella vita, checché se ne dica, raramente la prima impressione è quella giusta. Il primo ricordo di Lui risale a un primo turno di Coppa Davis 1999 in cui, sconosciuto 17enne, stava tenendo testa a Davide Sanguinetti, signor giocatore specialmente in Nazionale, prima di rovinare tutto con sette errori gratuiti consecutivi nel tie-break del secondo set. Avrebbe vinto lo stesso quella partita, e non solo quella; ma mi era rimasta in mente una sensazione di inaffidabilità ben poco svizzera, e da sostanziale ignorante del tennis mi ero rifugiato nel luogo comune del ragazzino di talento ma immaturo, senza testa. A quanto ho ripescato sull’archivio della Gazzetta, pure Rino Tommasi non c’era andato giù leggero: «Pagando una serie di infantili e clamorose ingenuità, Federer ha praticamente regalato a Sanguinetti il tie-break». Pure, il nostro capitano di Davis Paolo Bertolucci aveva annusato l’aria e all’inizio del week end si era augurato ad alta voce: «Vorrei tanto che esplodesse solo da lunedì prossimo».

Non mi è più capitato di dubitare di Federer. Anzi, mi sono volentieri fatto trascinare nell’ottimismo del suo gioco, nella purezza dei colpi anche spalle al muro, nel non derogare mai a dei principi di stile inammissibili per il 99% degli altri tennisti moderni. Pur avendo vinto 20 Slam, 103 tornei, 1245 partite (solo trenta in meno del primatista assoluto Jimmy Connors) e tutti gli altri record che trovate elencati dappertutto, ha perso tante altre volte «per educazione», secondo una frase sempre di Rino Tommasi che merita un approfondimento di curiosità.

Quando si parla di educazione e attitudine alla vittoria e alla sconfitta, la mente oppone subito Federer agli altri due alieni della storia contemporanea di questo sport, certamente più gladiatori di quanto lo sia mai stato Roger. Ma subito questo pensiero ci conduce a una falsa pista: l’idea che vincere sia l’unica cosa che conta, se applicata su larga scala a quindici o vent’anni di carriera, porta a conseguenze disastrose. Perciò mi perdonerete se non mi soffermo troppo sul Federer sportivo, o perlomeno non ancora, perché la sua vittoria più bella è stata proprio quella di sottrarsi al risultato, facendo leva su cinque-sei anni da dominatore per scendere a patti anzitutto col proprio cervello: lo scopo del gioco è sempre mettere a segno l’ultimo punto del match, questo è pacifico, ma non c’è più nessuno da sconfiggere.

Il Federer prima maniera, quello che ha regnato incontrastato perlomeno fino al 2007, è stato ovviamente di bellezza apollinea, degnamente celebrato da David Foster Wallace e da tutti gli epigoni, e la più grande invenzione della storia dopo la ruota – ovvero Youtube – ci consente di apprezzare l’Era Rogeriana in ogni suo quindici, anche quelli minori tipo torneo di Basilea (c’è quel famoso punto contro Roddick nel 2002 che sembra progettato al computer). Ma il Federer di colpo umano, ridisceso sulla terra dopo la finale di Wimbledon 2008 e scopertosi talmente fragile da scoppiare in un pianto dirotto dopo l’ennesimo lancinante Slam perso contro Nadal (Melbourne 2009, «God, it’s killing me…»), ha smesso i panni della scultura greca ed è diventato opera d’arte contemporanea.

Angelo precipitato sulla terra a pallate da Nadal e Djokovic, ci ha insegnato a sopravvivere alla sconfitta, a non farsi divorare dal demone dell’insoddisfazione, e poi ha fatto una cosa stupefacente. Ha cambiato il senso del proprio lavoro, passando da atleta a performer: ha svuotato il suo gioco di qualunque foga agonistica, anche quando si giocava gli Slam. Nelle fasi più ispirate era vero e proprio balletto, ammirato da spettatori disinteressati alla competizione e ipnotizzati dal suo meraviglioso footwork.

Si è inventato delle cose impossibili, come la SABR (Sneak Attack By Roger) esibita per la prima volta a Cincinnati nel 2015 contro Roberto Bautista Agut, che dopo un servizio se lo ritrovò improvvisamente acquattato all’altezza della linea del servizio. Letteralmente un “attacco furtivo”, roba da ladro gentiluomo, Cary Grant in Caccia al Ladro: il tentativo di Federer di rubare tempo al tempo, la spettacolare sfida – anzitutto con sé stesso, e mai contro un altro tennista – di poter giocare e vivere sempre con l’eleganza del controbalzo. E poi ha rivinto ancora, in un modo nuovo, commovente per chi lo aveva dato per finito troppo presto, ad esempio quando si era arreso a Stakhovsky a Wimbledon 2013 ed erano partite le campane a martello.

Da federeriano osservante e praticante non ho dubbi a indicare la mia/sua vittoria preferita: la finale degli Australian Open 2017, i cui 61 minuti finali del quinto set sono la versione tennistica e moderna della Rumble In The Jungle tra Ali e Foreman, con lo stillicidio finale di challenge e moviole che hanno reso drammatica anche la tecnologia. Col senno di poi avrebbe dovuto ritirarsi in quel momento, come il navigatore solitario finalmente tornato a Itaca dopo aver enormemente spostato in avanti i confini del tennis conosciuto, ballando da solo, l’art pour l’art, senza nemmeno lo straccio di una rivalità da cui farsi intossicare l’anima e i muscoli. Però ci avrebbe negato il più grande spettacolo tennistico di tutti i tempi, la finale di Wimbledon 2019 contro Djokovic, e di conseguenza ci avrebbe risparmiato quell’indicibile amarezza che però è parte di noi, di tutti gli amanti dello sport metafora della vita, e non andrà mai via.

Non si potrà mai essere eleganti quanto lo è stato Federer fin dal nome – Roger, come uno 007 – e cognome, che in italiano suona ancora più maestoso perché contiene la parola “fede” e la parola “re”, anche nel senso della nota musicale da far suonare all’organo della Cattedrale di Basilea. Chissà se è casuale che per annunciare al mondo il suo ritiro – che per un atleta è già una prima esperienza di morte – abbia scelto il giovedì pomeriggio, a una settimana esatta dalla dipartita della Regina Elisabetta.

Federer è stato un sovrano ovviamente buono, un dittatore illuminato nei suoi anni migliori pur avendo per forza di cose seminato vittime a cominciare da Andy Roddick, che forse deve ancora riprendersi dal trauma di quella finale persa 16-14 al quinto set e difatti, quel mattacchione, ha prontamente twittato: «Ora posso tornare ad allenarmi per Wimbledon». È uno dei pochissimi atleti della storia ad avere ideale status di patrimonio dell’UNESCO a partire dal fatto di essere svizzero – il Paese neutrale per eccellenza, che non prevede antipatie – lontanissimo dall’ostilità che Djokovic ama attirarsi con tutta l’ostinazione che ha in corpo, e che nemmeno un atleta e sportivo meraviglioso come Nadal è riuscito a evitare anche per il solo fatto di aver osato intralciare la strada di Re Roger.

Schegge isolate: il tweener a Djokovic a due punti dal match nella semifinale US Open 2011, un’ora e dieci di lezione gratuita a un imbambolato Berrettini a Wimbledon 2019, una celestiale semifinale (persa!) a Melbourne 2005 contro quel matto di Marat Safin, certe esibizioni lunari alle Finals di fine stagione, quando tutti i giocatori erano stanchi e le poche energie residue non bastavano a contenere da fondo gli zampillii di classe pura di Roger (ricordo soprattutto un Nadal brutalmente maltrattato 6-3 6-0, sarà stato il 2011). Già, la classe, e qui mi viene in mente un’altra celebre sentenza di Rino Tommasi, federeriana a 24 carati: «La classe è la prima di servizio vincente per annullare la palla break».

Qualche discepolo di buona volontà dovrebbe prendersi un mese di ferie e confezionare un video di tutte le palle-break annullate da Federer con un ace: chissà quanto durerebbe, chissà se un esploratore di qualche civiltà lontana proverebbe un palpito alla vista di tutta quella coolness così pura e intellegibile. Così come ci sarà da commuoversi come davanti ai baci finali di Nuovo Cinema Paradiso alla vista dei suoi turni di servizio più ispirati, a volte sotto il minuto di durata, alla varietà di colpi con cui affettava non tanto il suo avversario – da un certo punto in avanti le partite di Federer non prevedevano più un avversario, tantomeno per il pubblico che aveva occhi solo per lui – ma lo spazio-tempo circostante, come un Pollock con la tela bianca.

Qualcuno ha scritto che il tennis è uno dei rarissimi sport individuali che muove da un punto di partenza totalmente astratto: correre, nuotare, tirare di scherma, lottare sono tutte esigenze che l’uomo trasforma in azione fin dall’antichità, mentre non lo è affatto colpire una pallina facendo in modo che finisca in rettangoli delimitati da alcune strisce bianche per terra. Per noi ragazzi degli anni Duemila, Federer ha scritto poesia: un artista contemporaneo che ha ridato al tennis, un po’ avvilito dai cacciabombardieri che giravano nei primi anni Novanta – andate a rivedervi oggi certe partite di Ivanisevic, passato alla storia come un amabile genio pazzoide, e le troverete di una noia mortale – il classicismo che sembrava smarrito nel fatale passaggio dal legno alla grafite.

È stato l’assolo di tastiere di Rick Davies in “Goodbye Stranger”: un paradigma di classe senza tempo, che tutti noi al mondo riconosceremo finché camperemo. Ora il grosso rischio è quello di sentirsi vecchi, fastidiosamente simili a tutti quelli che petulano sulle racchette di legno e blaterano da anni «Ah, il tennis dopo McEnroe non ha più senso». Te lo promettiamo, Roger, non smetteremo di stupirci tanto facilmente. Arrivederci, straniero. 

And I will go on shining
Shining like brand new
I’ll never look behind me
My troubles will be few