L’ascia di guerra l’ha dissotterrata Paolo Grimoldi che non esclude di andare davanti ai cancelli di via Bellerio per chiedere che si prenda atto che una stagione (un’altra?) della Lega è finita. Grimoldi, che ha guidato la Lega lombarda fino al 2021, ha fatto parte del consiglio federale ed è stato più volte parlamentare prima di essere messo ai margini, ha scritto su Facebook: «Abbiamo perso, persino i M5s ci hanno superato e siamo appaiati a Calenda e alla “morente” Forza Italia nonostante una affluenza molto bassa al sud. Un disastro assoluto. Basta con la barzelletta del regolamento, dei “congressini” e del Covid, la questione è politica. Serve un unico congresso: quello della gloriosa Lega lombarda, va ridata la voce alla base, ai sindaci e ai territori attraverso una Lombardia di rappresentanti democraticamente votati ed acclamati per meriti». E poi ha tenuto a precisare: «Non ho chiesto le dimissioni di Salvini. Ho chiesto un congresso regionale dove i dirigenti nominati in modo meritocratico possano avviare una riflessione democratica».
Una richiesta che tradotta significa tornare alla Lega Nord, quella storica dei territori, non quella del cerchio magico di Salvini. Il dissenso, trattenuto fino all’esito delle elezioni politiche che hanno portato la Lega sotto il 9 per cento – dimezzati i consensi sia in Lombardia sia in Veneto dove è stata doppiata da Fratelli d’Italia – è scoppiato stamane all’alba quando sono stati pubblicati numerosi post su Facebook da parte di dirigenti leghisti per chiedere congressi regionali subito.
Una protesta di amministratori locali (e militanti) esclusi dalle liste elettorali o critici verso le tattiche ondivaghe del leader della Lega. Insomma una resa dei conti con Salvini che ha deviato il corso territoriale, settentrionale e autonomista della Lega Nord.
In Piemonte un altro escluso dalle liste elettorali, l’ex parlamentare Paolo Tiramani, ha scritto: «Ho aspettato l’esito delle elezioni per rispetto verso il movimento in cui milito da 21 anni, prima di esprimere il mio pensiero. Questa tornata elettorale è andata molto male per scelte non condivise con il territorio in primis, decise da poche persone nella stanza dei bottoni. Persone che negli ultimi anni sono stati incapaci addirittura di vincere le elezioni del proprio Comune. Quando le antipatie personali, l’ego e la delazione, superano l’obiettivo comune che è vincere e amministrare bene il proprio territorio evidentemente qualcosa non va.La fronda, una volta esplosa non si ferma. Soprattutto dopo che Matteo Salvini, alla conferenza stampa di lunedì mattina, ha detto che ha pagato il prezzo per l’adesione al Governo Draghi».
In Veneto ci hanno messo la faccia due assessori, prima che il governatore Luca Zaia facesse cadere la mannaia: l’assessore regionale veneto allo Sviluppo economico, Roberto Marcato, ha scritto su Facebook: «25 settembre 2022. Cronaca di un disastro annunciato» e poi ha dichiarato. «Si impone una profonda riflessione anche per i vertici. Basta folklore, congresso regionale subito».
Idem per l’assessore veneto all’Ambiente e alla Protezione Civile, Gianpaolo Bottacin, che ha dichiarato lo stato d’emergenza politica: «Congresso entro un mese o regaleremo la Regione infiocchettata a Fratelli d’Italia».
Solo dopo le dure posizioni dei suoi assessori è arrivata la tanto attesa sentenza di Zaia che ha rinunciato al passo felpato usato finché ha potuto per stare lontano dalle beghe interne al partito leghista. «Il voto degli elettori va rispettato perché come diceva Rousseau nel suo contratto sociale, il popolo ti delega a rappresentarlo, quando non lo rappresenti più ti toglie la delega», ha dichiarato il governatore veneto.
Con parole diverse lo hanno detto in tanti. Consiglieri regionali delle regioni settentrionali che hanno chiesto tutti la medesima cosa: congresso, congresso, congresso. Matteo Salvini ha preso tempo. Ha detto che prima si dovranno finire quelli cittadini, poi ci saranno i congressi provinciali e poi quelli regionali ma forse ormai è troppo tardi. La fronda che è esplosa come la fioriera che si è frantumata al suolo nel cortile di via Bellerio domenica sera, quando era chiaro che la Lega aveva preso la batosta. «Salvini è stato ondivago, non ha rispettato la volontà dei territori perché non ha ascoltato nessuno, tranne quelli del suo cerchio ristretto».
Matteo Bianchi, vicino a Giancarlo Giorgetti, che è stato segretario provinciale della Lega a Varese, sindaco di Morazzone e poi parlamentare, ha chiuso questa giornata convulsa con un j’accuse su Facebook che si conclude in questo modo: «Non si può pensare di ricondurre le responsabilità del disastro a Draghi e un partito non può reggersi sulla fede, sui commissariamenti e sulla criminalizzazione del dissenso. Noi siamo nati per far crescere i nostri territori: per questo invito i militanti a chiedere la convocazione immediata dei congressi tramite i propri segretari/commissari di sezione. Ripartiamo da una discussione franca su dove vogliamo andare. E ricordiamo a chi di dovere che la linea politica la decide la base, non qualche cerchio magico».
Interpellato da Linkiesta, lancia un monito. «Ora il mio timore è che si stia andando verso una drammatica ripetizione dello psicodramma del 2012». Ossia quella tragica serata delle scope dell’orgoglio padano a Bergamo in cui Umberto Bossi venne umiliato dai barbari sognanti di Bobo Maroni.