Sulla questione della pace e della guerra in Ucraina è in corso da tempo il tentativo di imprimere una svolta alla linea seguita sin qui dal nostro paese, cercando nella chiesa e in papa Bergoglio un punto di riferimento più popolare di Henry Kissinger per giustificare il riposizionamento. Si tratta di una spinta che viene da più parti, con diverse motivazioni. A sinistra, la manovra si salda con il tentativo di ottenere un sostanziale ripudio delle scelte compiute con il governo Draghi, non solo sulla guerra, e un generale riallineamento al Movimento 5 stelle sotto l’egida di Giuseppe Conte.
Dopo l’appello firmato da Rosy Bindi, Tomaso Montanari e vari altri intellettuali e politici perlopiù di area catto-populista in favore di una riapertura del dialogo tra democratici e grillini, pubblicato sul Fatto quotidiano qualche settimana fa, ieri è stato Avvenire, organo della conferenza episcopale italiana, a pubblicare l’appello per un «negoziato credibile» firmato da un gruppo di intellettuali di destra e di sinistra, laici e cattolici, nella forma di una lettera al direttore. Significativamente, gli unici due quotidiani, a parte Avvenire, che ieri riportavano la notizia erano la Verità, con un ampio resoconto della genesi e del merito della proposta, e il Fatto, che ne pubblicava «ampi stralci» (corrispondenti più o meno al cento per cento del testo, escluse le parole «caro direttore»).
Non per niente, tra i firmatari più noti c’è Massimo Cacciari, che si è conquistato già da tempo i favori di entrambi i quotidiani con le imprese della «Commissione dubbio e precauzione» messa su assieme a Carlo Freccero e Ugo Mattei, dove i dubbi e le precauzioni erano ovviamente da intendersi come riferiti ai vaccini, al green pass e alle altre misure anti-Covid (quelle sì di precauzione), mica al virus. Una parabola simile, del resto, hanno seguito gran parte dei movimenti, gruppi e gruppetti no vax che hanno funestato in questi anni talk show e social network, trasformatisi tutti molto rapidamente in gruppi contro la guerra. Dove ovviamente la guerra da fermare, gratta gratta, si capisce che non è mai quella della Russia sul suolo ucraino, ma quella dell’Ucraina per respingere l’offensiva russa. Insomma, così come ieri non bisognava difendersi dal Covid, ma da vaccini e green pass, così oggi il pericolo è rappresentato dalla capacità di difendersi degli ucraini, che potrebbe spingere Vladimir Putin, si dice, a utilizzare la bomba atomica.
La lettera-appello pubblicata da Avvenire comincia infatti proprio così: «La minaccia di un’apocalisse nucleare non è una novità. L’atomica è già stata usata. Non è impossibile che si ripeta». Basta questo incipit – nel merito, nel tono e nelle allusioni ai precedenti storici – per capire subito da dove si parte e dove si vuole andare a parare. Secondo questa logica, qualunque tiranno in possesso dell’atomica decidesse di invadere un paese vicino – non importa quanti massacri, torture, deportazioni imponesse nel frattempo alle popolazioni civili – dovrebbe ottenere subito in premio un bel negoziato in cui discutere quanta parte del territorio da lui occupato resterebbe per sempre di sua legittima proprietà. Al di là della questione morale, strategica e politica, siamo proprio sicuri che un simile approccio renderebbe il mondo più sicuro, e il rischio di una «apocalisse nucleare» più basso?
Il piano in sei punti pubblicato ieri da Avvenire consiste fondamentalmente nel dare a Putin tutto quel che vuole, dandogli pure ragione (infatti ha già raccolto l’entusiastica adesione di Alessandro Di Battista). Merita una segnalazione in particolare il punto due, dove si parla di «concordato riconoscimento dello status de facto della Crimea, tradizionalmente russa e illegalmente “donata” da Krusciov alla Repubblica Sovietica Ucraina». Passaggio degno di nota perché condanna l’«illegale» donazione della Crimea all’Ucraina da parte di Krusciov nel 1954 e non cita nemmeno, anzi, così dicendo chiaramente giustifica, l’annessione della Crimea manu militari da parte di Putin nel 2014. Seguono poi «autonomia delle regioni russofone di Lugansk e Donetsk entro l’Ucraina secondo i Trattati di Minsk, con reali garanzie europee o in alternativa referendum popolari sotto la supervisione Onu» e la «definizione dello status amministrativo degli altri territori contesi del Donbass per gestire il melting pot russo-ucraino che nella storia di quelle regioni si è dato ed eventualmente con la creazione di un ente paritario russo-ucraino che gestisca le ricchezze minerarie di quelle zone nel loro reciproco interesse».
E qui, arrivati al «melting pot», ai «territori contesi» e soprattutto al «loro reciproco interesse», diventa difficile separare il tragico dal grottesco, e anche continuare a leggere. Parliamo di zone dove ogni giorno la controffensiva ucraina, a mano a mano che libera città e villaggi, scopre nuove camere di tortura e nuove fosse comuni.
Due giorni fa, a Kherson, il direttore della Filarmonica Yuriy Kerpatenko è stato ucciso dai russi in casa sua perché si era rifiutato di dirigere un concerto in favore dell’invasore. Chi vuole la pace si augura che Kherson sia liberata al più presto da simili assassini o che i fratelli, i figli e i genitori delle vittime si siedano a discutere di quanta parte delle risorse naturali del paese dovrebbero cedere ai loro carnefici, in un bel comitato paritario formato per metà dagli scampati alle camere di tortura e per metà dai torturatori? La verità è che l’unico esercito che si vorrebbe concretamente fermare, oggi, è quello che sta liberando l’Ucraina da tali aguzzini.
Vedremo quanto i firmatari di destra dell’appello – tra i quali nomi come Pietrangelo Buttafuoco, Franco Cardini, Marcello Veneziani, certo non estranei alla tradizione da cui proviene Fratelli d’Italia – si dimostreranno isolati anticonformisti o magari invece avanguardia di un movimento più largo. Ma a sinistra è evidente che la partita per ridisegnare i confini e la natura dell’intero schieramento è già cominciata.
È sempre un bene che le posizioni politiche siano espresse chiaramente, affinché ciascuno possa valutarne in piena coscienza tutte le implicazioni strategiche e morali. Se questa idea di pace – e di collocazione internazionale dell’Italia – è il discrimine su cui si vuole costruire una nuova sinistra che vada dal Pd al M5s, è un’ottima cosa che sia esposta limpidamente nel dibattito pubblico, e che tutti i dirigenti impegnati in una simile prospettiva dicano esplicitamente come la pensano.