Nell’agosto del 2021 ho passato una mattinata a cercare di farmi dare i miei soldi dalla mia banca: dovevo saldare cinquemila euro al traslocatore che aveva portato i miei mobili da una casa a un’altra, e allo sportello della banca si avvicendavano sempre nuovi funzionari che in sempre più fantasiosi modi si rifiutavano di darmi i soldi con cui pagare il traslocatore in nero. È forse questo un articolo sull’eroica banca che impedisce i pagamenti in nero qualunque governo ci sia? Mmm, no.
Nell’agosto del 2022 ho passato un paio di settimane in questura. Ci andavo quasi tutti i giorni, cercando di capire se avrei mai ottenuto un passaporto con cui poter partire per l’Inghilterra all’inizio di settembre. È forse questo un articolo sul fatto che Milano è una città civile dove c’è un ufficio per i passaporti urgenti, e a Bologna se chiami l’ufficio stampa della questura per chiedere se tale ufficio esista ti risponde una tizia che dice «Non le so queste cose, il mio lavoro è dare informazioni ai giornalisti»? Mmm, no.
Nell’ottobre del 2022 ho passato un’intera giornata al telefono con dischi automatici che promettevano che prima o poi mi avrebbe risposto un cristiano, cristiano che avrebbe dovuto prenotarmi una tac, tac che secondo tutti conveniva fare in un ospedale pubblico che aveva acquistato un nuovo modernissimo macchinario. Alla fine il cristiano mi ha risposto, e mi ha detto no io non posso prenotargliela, le mando le istruzioni per mail, tipo caccia al tesoro. Alla fine le istruzioni sono arrivate e dicevano che in quell’ospedale l’esame modernissimo andava prenotato via fax. È forse questo un articolo per dire a Stefano Bonaccini di trasferire in questo secolo la sanità dell’Emilia Romagna, per la quale si spreca moltissimo la parola «eccellenza» ma per prenotare un esame devi mandare un cablogramma? Mmm, no.
In tutti questi casi – la banca, la questura, l’ospedale – io sono solita citare una scena d’un film con Romy Schneider che passava spesso alla tele quand’ero piccola, La giovane regina Vittoria. In una scena verso la fine, quando lei è già innamorata e Alberto sta per arrivare a Kensington Palace e Vittoria vuole fare buona impressione, la regina strepita che il palazzo sia freddo e le finestre sporche. La dama di compagnia (interpretata da Magda Schneider, la madre) convoca un valletto, che però desolatamente comunica: «I lacchè reali dipendono dal caposcuderia, e non possono nemmeno toccare le finestre». Quanto ai caminetti, «il lord apparecchiatore fa preparare la legna, e il lord cameriere accende il fuoco, ma prima di settembre non esiste un pezzo di legna al castello». Il film è del 1954, e già il riscaldamento tardava come nell’autunno del gas russo di sette decenni dopo.
La dama di compagnia insiste, e il valletto torna, sempre più desolato: «Dall’interno, maestà, le finestre dipendono dal dipartimento del maggiordomo di corte, dall’esterno dall’amministrazione boschi e foreste». Se la regina Vittoria non riusciva a far pulire le finestre, posso io pretendere di prenotare un esame con una telefonata, con una mail, col fascicolo sanitario elettronico (l’invenzione che più promette e meno mantiene di tutti i tempi)?
Se ci sono due dipartimenti per i vetri esterni e quelli interni di Kensington Palace, posso io meravigliarmi se, nella divisione per regioni della sanità italiana, quando in Emilia mi consegnano il certificato vaccinale della mia intera vita, esso contenga la profilassi per la febbre gialla fatta nel 1981 ma non le prime due dosi del vaccino per il Covid, che saranno pure dell’anno scorso ma sono state fatte in Lombardia e mica pretenderemo si scambino informazioni?
Se la regina non riesce a precettare il lord apparecchiatore e il lord cameriere, posso io averla vinta con funzionari che sostengono che se mi danno tutti i (miei) soldi che chiedo poi non gli resteranno contanti in cassaforte? (Sotto i materassi degli italiani ci sono più banconote che nella cassaforte della mia banca).
Il fatto è che, sebbene io da quarant’anni di fronte a ogni ostacolo ripeta «i vetri esterni dipendono dall’amministrazione boschi e foreste» (un riferimento che capiamo in tre), non ho evidentemente ancora introiettato il portato dell’informazione. Ovvero: contro la burocrazia stupida non puoi vincere. Mai. In nessun caso. Neanche se regni su un impero.
(E infatti Giorgia Meloni, che mica è scema, si è ben guardata dal prometterci che non dovremo pagare tre cifre diverse in tre posti diversi, tre cifre che vanno tutte allo Stato ma tu devi incomodarti tre volte, per fare il passaporto: ha promesso di alzare il tetto del contante, che è molto meno infattibile che risparmiarti il giro delle tabaccherie perché ti serve un bollo da 73 euro e mezzo ma le tabaccherie hanno un tetto ai bolli che possono emettere ogni settimana: una non vorrebbe dire «kafkiano», ma la costringono).
In una delle giornate passate in questura lo scorso agosto, dopo un’ora di fila sono stata rimandata a nuova udienza perché non avevo portato la stampata del modulo contenuto nella mail con cui mi confermavano l’appuntamento. Ma me l’avete mandato voi, ce l’avrete. Lo deve portare stampato.
Quel giorno erano aperti anche il pomeriggio, quindi ho atteso che pranzassero comodamente e sono tornata tre ore dopo, dopo aver dato dei soldi a un cartolaio perché mi stampasse il prezioso modulo, e anche dopo averlo compilato (avevo tre ore da far passare). Il tizio allo sportello l’ha stracciato: dovevo firmarlo davanti a lui, sennò come faceva a sapere che la firma fosse mia? Non ho chiesto perché mai avrei dovuto far firmare da qualcun altro il modulo di richiesta del mio passaporto, e – vile – quando ha ristampato lui i moduli che avrei quindi firmato al suo cospetto non gli ho neppure detto: ma brutti stronzi, non potevate stamparli voi già stamattina, invece di farmi perdere mezza giornata?
Nel pomeriggio del giorno in cui ho rinunciato a prenotare l’esame via fax in ospedale, il centralinista della clinica in cui lo stavo prenotando a pagamento mi ha detto che avrei dovuto presentarmi il giorno dell’esame con un modulo in cui il mio medico di base certificasse che non sarei morta se mi iniettavano un mezzo di contrasto. Ho detto: scusi, ma non posso autocertificarlo? Il medico di base non mi ha mai vista prima, mentre io so con una certa qual certezza di non essere morta a nessun esame con mezzi di contrasto precedente. Giuro che mi ha risposto: «Il medico ha una laurea». Sapendo bene che non avrei voluto fare la figura di quella che rivendica l’università della vita. E che avrei quindi perso un’ora ad andare da uno che non mi aveva mai vista e che ha messo delle crocette su un modulo dopo avermi chiesto se avessi insufficienze renali. Le crocette che avrei messo io, ma con la laurea sua.
È forse questo un articolo che dice che qualunque lord apparecchiatore, e medico di base che mette crocette sotto dettatura ma dopo aver fatto spendere i genitori per farlo studiare, e cartolaio vicino alla questura che stampa moduli a pagamento, e fabbricante di fax comprati dalla sanità emiliana, che tutti loro resteranno disoccupati se ci liberiamo della burocrazia, e che perciò la burocrazia è una forma di reddito diffuso?
Non so, ma di sicuro è un articolo che si domanda: ma se io sono dovuta tornare due mattine in banca perché cinquemila euro me li davano a rate sennò non gli restavano i soldi per la merenda, quelli che prelevano diecimila euro con tanto agio sono forse correntisti altrove?