Nel corso di questa settimane nel nostro Paese è mutato il quadro politico, le elezioni hanno consegnato alle destre una vittoria netta; nei prossimi giorni assisteremo alla nascita di una nuova maggioranza parlamentare che esprimerà un nuovo Governo che giocherà un pezzo della sua credibilità internazionale sulla questione ucraina. Nelle stesse ore in casa nostra, in casa democratica, è partita la tradizionale analisi della sconfitta che si colora di tinte differenti, aprendo le porte a un cammino precongressuale dagli esiti speriamo rifondativi.
Il Partito Democratico è nato quindici anni fa proprio per creare una valida alternativa nel campo progressista alle derive massimaliste e minoritarie, a quel complesso di eterna adolescenza che affliggeva il progressismo italiano dopo la svolta della Bolognina e dopo il crollo della Prima Repubblica. Nacque dalle ceneri del governo Prodi bis, che ebbe i suoi maggiori strappi proprio sulla politica estera e sull’adesione di alcune minoranze di Rifondazione Comunista a mozioni che chiedevano il ritiro delle truppe italiane dalle missioni di pace in Iraq e in Afghanistan.
Da quel momento in poi, la comunità politica democratica nella sua interezza, complice la vittoria di Barack Obama, ha compiuto dei grandi passi in avanti sulla linea da seguire nei contesti più difficili. Dall’uniteralismo repubblicano si è passati alla ricerca di un multilateralismo diverso, che recuperasse un ruolo effettivo e centrale delle Nazioni Unite e della funzione fondativa della Nato, per evitare che le esperienze irachene e afghane venissero ripetute. In questo senso la bussola che il Partito Democratico ha tenuto sulla questione ucraina è stata impeccabile. In base al Diritto Internazionale e alle Convenzioni in corso si è scelto, sin dal primo momento, di offrire sostegno politico e assistenza militare a uno Stato vittima di una aggressione ingiustificata.
Un’assistenza che non ha mai travalicato i confini dello Stato di diritto e gli impegni che il governo Italiano e Parlamento quasi nella sua interezza (da Fratelli d’Italia al Movimento Cinque Stelle) ha intrapreso. È stato così anche in sede europea, dove il Parlamento ha immediatamente creato uno scudo politico all’aggressione putiniana, creando un cordone sanitario intorno alle forze sovraniste e filorusse che hanno tentato di destabilizzare le nostre istituzioni democratiche.
La ricerca di una soluzione diplomatica in questi mesi di guerra è stata al centro del lavoro silente e operoso della diplomazia internazionale, se si è evitata una carestia drammatica, se si è scongiurato l’utilizzo di armi chimiche nella prima parte del conflitto è stato grazie a questo lavoro incessante. Così come siamo impegnati a scongiurare gli effetti di una crisi energetica dalle gravi conseguenze economiche su famiglie e imprese in tutta Europa, che potrebbe rendere oggettivamente più difficile difendere le ragioni del sostegno alla causa ucraina. Ma va chiarito con fermezza che anche la crisi energetica è figlia dell’aggressività del regime di Putin, poiché è l’elemento, forse quello più insidioso, della guerra ibrida che ha dichiarato all’Europa.
In virtù di tutto questo, come possiamo non vedere nei tentativi di relativizzare le ragioni degli aggrediti, l’ennesimo tentativo della propaganda del Cremlino? Come possiamo guardare negli occhi le donne e gli uomini ucraini che da mesi combattono per difendere il fronte europeo chiedendo loro la rinuncia alla dignità e all’integrità territoriale?
Siamo certamente chiamati a tracciare un percorso che porti alla risoluzione di un conflitto che ha alla base un’aggressione criminale contro uno Stato sovrano. E il coinvolgimento di tutti coloro che possono svolgere un ruolo in questo senso è benvenuto e prezioso, a cominciare naturalmente dalla necessaria iniziativa delle Nazioni Unite.
Questa road map deve partire dall’assunto che non ci può essere pace senza giustizia: ogni possibile accordo non potrà non riconoscere i torti subiti e la necessaria sicurezza che le ucraine e gli ucraini meritano di avere. L’autodifesa non è incompatibile o in antitesi con la pace, ma la presuppone. Perché dota di uno strumento quei principi invalicabili su cui si fonda la convivenza tra i popoli: il libero esercizio della sovranità e l’integrità del proprio territorio. Per dirla più chiaramente: la pace si costruisce solo sulla libertà e sulla giustizia.
È naturalmente nostro compito accogliere e comprendere le giuste e legittime preoccupazioni dei cittadini, insieme alle riflessioni che le associazioni, organizzazioni umanitarie, autorità religiose rivolgono al conflitto in corso: ogni componente della società civile, quando in buona fede, impiega il meglio per sanare una ferita, ma questo percorso non può in alcun modo passare per la relativizzazione dei torti e delle ragioni.
Il conflitto ucraino sta conoscendo una nuova fase che deve trovare pronte le società europee, abbiamo resistito a ogni tentazione, siamo in una fase nuova in cui il superamento delle emergenze energetiche e la creazione di una nuova Comunità Europea allargata segneranno il nostro futuro.
Non dobbiamo disperdere la lotta preziosa di questi mesi, portata avanti con coraggio e coerenza. Lotta che ha portato a un rovesciamento delle sorti del conflitto che sono davanti agli occhi di tutti. Qualcuno aveva immaginato a febbraio una capitolazione repentina.
Ora le difficoltà sul campo e interne sono tutte in capo al regime di Putin. Sarebbe assai curioso cedere ora. Non si recuperano elettori arretrando sul terreno della responsabilità semmai si conquistano percorrendo per intero le strade che abbiamo subito compreso essere giuste.