La prima esperienza è appena un ricordo, e stento davvero a trovare le parole. C’era una veranda, all’ombra, vicino al cortile solatio (nei miei ricordi d’infanzia, c’è sempre il sole). Una poltrona, in mezzo alla veranda, e la sensazione ripetuta, deliziosa, di potervi sprofondare indefinitamente. La sensazione, inoltre, di qualcosa che mi avrebbe accompagnato per tutta la vita. Un’impressione di pienezza, poiché “tutta la vita” (forse, in seguito, riuscirò a sorriderne, ma oggi lo dico con una certa amarezza), “tutta la vita”, al tempo, mi sembrava qualcosa di lunghissimo.
Pensavo che la mia vita sarebbe stata felice, e nemmeno immaginavo, con precisione, la sofferenza; la vita mi appariva una delizia e un dono, e la lettura era una delle gioie di quella vita indefinitamente deliziosa.
Ero un bambino. Ero felice, e la felicità lascia poche tracce.
A poco a poco ho appreso che cos’era in realtà la vita degli uomini; e l’ho appreso anche attraverso i loro libri.
Probabilmente i miei nonni non hanno mai prestato attenzione alla differenza d’età dei lettori cui erano destinate, in linea di massima, le opere della “Bibliothèque Rose” e quelle della “Bibliothèque Verte”; come spiegare altrimenti il fatto che io abbia potuto, a dieci anni, ritrovarmi a leggere Graziella?
Lì c’è tutto il romanticismo della giovinezza, il suo primo impulso, e Il primo rimpianto, che conclude il libro, è una poesia d’incredibile purezza. Mai prima di Lamartine, e mai dopo di lui (nemmeno in Racine, nemmeno in Victor Hugo), si era scritto e si scriverà in versi alessandrini con una tale naturalezza, spontaneità, slancio del cuore.
Come ha potuto Lamartine, che aveva conosciuto a diciott’anni una Graziella che ne aveva sedici, dimenticarla? Come ha potuto, dopo, continuare a vivere? E a che cos’altro il lettore di Lamartine potrebbe dedicare la propria vita se non a incontrare una Graziella di sedici anni? E quell’affascinante schifezza che, tutto sommato, è la letteratura… Così perniciosa, potente, incredibilmente più potente del cinema, e più perniciosa, anche, della musica.
Ci sono state pure altre cose. Lo stucchevole Jack London, che Lenin amava tanto (ed è stata sicuramente questa dichiarata ammirazione di Lenin per Jack London, la sua cinica accettazione della lotta per la vita, agli antipodi della presunta generosità che si lega al termine “comunismo”, ad aprirmi gli occhi e a trattenermi in anticipo, e per sempre, dall’accostamento al marxismo). Il meraviglioso Dickens (non riderò mai più così forte, così sinceramente, mai più riderò fino alle lacrime, a crepapelle, come ho fatto a nove anni scoprendo Il Circolo Pickwick). C’è stato Jules Verne, ci sono state le fiabe di Andersen – La piccola fiammiferaia mi ha spezzato il cuore, e a ogni rilettura continua, con inesorabile regolarità, a spezzarmelo di nuovo.
Ricordo anche la collana “Rouge et Or”, con le sue illustrazioni ingenue (un po’ più cara, probabilmente, fungendo spesso da regalo di compleanno o natalizio); alla fine, di quel periodo, ho soltanto buoni ricordi. Anche se non avrebbero dovuto lasciarmi leggere Graziella a dieci anni. Le bambine, al tempo, cercavano la mia compagnia, e alcune, me ne rendo conto oggi, avevano già dei pensieri reconditi; nel complesso, non si può dire che sia partito male, ma di lì a poco c’è stata la pubertà, proprio quando imperversava la moda dei mini short, e ho fatto difficoltà a conciliare il tutto con la lettura di Graziella, ho iniziato a respingere ciò che mi veniva offerto a braccia aperte – e che mi procurava comunque una voglia tremenda – per cercare nella vita cose che non vi si trovavano; in breve, le cose hanno cominciato a incasinarsi gravemente per me, e continuo a pensare che sia un po’ colpa di Lamartine. È più o meno in quel periodo che ho abbandonato le collane dedicate all’infanzia per i tascabili.
Per me, i libri validi erano quelli di “Le Livre de Poche” e di J’ai lu. Detestavo i “Folio” e i “Présence du Futur”, troppo cari, copertine abominevoli – genere “disegno scuro su sfondo bianco” – e soprattutto una qualità di confezione scadente, bastava aprirli una decina di volte e le pagine male incollate si staccavano, i libri si sfasciavano, mentre i “Le Livre de Poche” e soprattutto i J’ai lu erano indistruttibili, per davvero, perché li ho aperti ben più di una decina di volte, li ho portati con me ovunque, nei caffè, alla mensa del liceo, in treno – e presto ho smesso di prendere treni suburbani, ho iniziato a prendere treni che attraversavano l’Europa, era il periodo del biglietto Interrail, ho dormito in campeggi polverosi, in cantine umide, eppure i miei J’ai lu sono ancora qui accanto a me mentre sto scrivendo; adesso sono ricco, viaggio in business class, non hanno più nulla da temere, è un bene.
In seguito, dopo il fallimento del mio matrimonio e della mia vita professionale, mi sono messo a scrivere. Più esattamente, ho cominciato a scrivere romanzi, che sono stati pubblicati e mi hanno procurato, relativamente, gloria e fortuna. Di colpo, mi sono messo a leggere i miei contemporanei, scoprendoli nelle edizioni normali. Ma non ho mai smesso di leggere, o rileggere, i tascabili, ed è stata per me una grande gioia essere pubblicato da J’ai lu – è ovvio che non avrei rifiutato “Folio” o “Presses-Pocket” se il mio editor lo avesse desiderato, ma in ogni caso il momento in cui mi sono visto per la prima volta su una copertina di J’ai lu rimane uno dei più belli della mia vita.
Oggi leggo un po’ meno i contemporanei, tendo più a rileggere – è normale, sto invecchiando. Ora so che leggerò fino alla fine dei miei giorni – forse smetterò di fumare, sicuramente di fare l’amore, e le conversazioni delle persone perderanno a poco a poco il loro interesse, ai miei occhi; ma non riesco a immaginarmi senza un libro.
Non ho mai provato un particolare attaccamento per le edizioni originali, per l’oggetto libro – è il contenuto, in primo luogo, a interessarmi. Solo ora vado sostituendo, un po’ per volta, i miei libri in edizione normale o tascabile con alcuni di quei meravigliosi oggetti, così pratici in viaggio, che sono i “Pléiade”, i “Bouquins” o gli “Omnibus”. Eppure esistono alcune eccezioni, sentimentali, e mi pare poco verosimile – anche nel caso in cui le cose si mettessero di nuovo male, anche nel caso in cui mi ritrovassi in una camera ammobiliata con uno o due bauli, il che dopotutto resta sempre possibile – che io mi separi mai da certi miei libri; in particolare da certi miei J’ai lu.
© 2022 La nave di Teseo editore, Milano
Da “Interventi” di Michel Houellebecq, La Nave di Teseo, trad. Sergio Arecco, pp. 480, 22 euro