La mattina presto del 20 febbraio 2014 il ventottenne Bohdan Solčanyk arrivò a Kiev con un treno partito da Leopoli. Storico, sociologo e poeta in erba, insegnava all’Università cattolica ucraina di Kiev e stava lavorando a una dissertazione dottorale sulle pratiche elettorali in Ucraina, seguito da un relatore dell’Università di Varsavia. Ma, in quel freddo giorno di febbraio, quando scese sulla banchina della stazione ferroviaria di Kiev, Solčanyk non era impegnato in un viaggio di studio. A Kiev non si stavano tenendo le elezioni; era scoppiata la rivoluzione. Solčanyk l’aveva sognata nel 2008, quando aveva scritto la poesia Dov’è la mia rivoluzione?, nella quale aveva espresso la delusione della sua generazione per le promesse fatte durante la Rivoluzione arancione del 2004 e mai mantenute.
Ora una nuova rivoluzione era giunta in Ucraina, con centinaia di migliaia di persone che, alla fine di novembre del 2013, si riversarono nuovamente nelle strade del centro di Kiev per chiedere le riforme, la fine della corruzione e più stretti legami con l’Unione Europea. Solčanyk sentiva che il suo posto era tra i manifestanti. Il 20 febbraio era la quarta volta che prendeva parte alla rivoluzione, ma si rivelò anche l’ultima. Poche ore dopo il suo arrivo a Kiev, un cecchino uccise Solčanyk insieme a decine di altri dimostranti. Da morto sarebbe diventato uno degli «Eroi Celesti», gli oltre cento manifestanti uccisi a Kiev nel gennaio e nel febbraio del 2014. Queste uccisioni posero fine a ventidue anni di politica sostanzialmente non violenta in Ucraina, e aprirono una nuova e drammatica pagina della sua storia.
La democrazia pacificamente conquistata negli ultimi giorni dell’Unione Sovietica e l’indipendenza ottenuta con le elezioni svoltesi nel dicembre del 1991 richiedevano ora di essere difese non soltanto con le parole e le manifestazioni, ma anche con le armi. Gli eventi che portarono ai massacri di Majdan si erano messi in moto nel febbraio del 2010 con la vittoria nelle elezioni presidenziali di Viktor Janukovyč, il principale obiettivo delle proteste del 2004. Il nuovo presidente iniziò il suo mandato cambiando le regole del gioco politico. Ciò cui egli aspirava era un forte regime autoritario, e cercò di concentrare il maggior potere possibile nelle proprie mani e in quelle della sua famiglia. Riscrisse la costituzione costringendo il parlamento ad annullare gli emendamenti del 2004 e a concedere più potere alla presidenza. Poi, nell’estate del 2011, processò e incarcerò il suo principale avversario politico, l’ex prima ministra Julija Tymošenko, con l’accusa di avere firmato un accordo sul gas con la Russia, che era stato svantaggioso per l’economia ucraina.
Una volta concentrato il potere nelle proprie mani e zittita o intimidita l’opposizione, Janukovyč e i suoi collaboratori si dedicarono all’arricchimento del clan che guidava il paese. In breve tempo Janukovyč e i membri della sua famiglia e del suo entourage accumularono gigantesche fortune, trasferendo almeno 70 miliardi di dollari in conti esteri e minacciando la stabilità economica e finanziaria dello stato, che nell’autunno del 2013 si ritrovò sull’orlo della bancarotta.
Poiché l’opposizione era stata schiacciata o cooptata, la società ucraina ripose nuovamente le proprie speranze nell’Europa. Sotto il presidente Viktor Juščenko, il paese aveva avviato dei negoziati con l’Unione Europea per definire un accordo che avrebbe comportato la creazione di una zona economica libera e la liberalizzazione dei visti per i cittadini ucraini. La speranza era che, una volta firmato, l’accordo avrebbe salvato e rafforzato le istituzioni democratiche ucraine, protetto i diritti dell’opposizione e portato nel paese standard imprenditoriali europei, frenando la dilagante corruzione che partiva dal vertice stesso della piramide statale. Alcuni oligarchi, temendo il crescente potere del presidente e del suo clan, e desiderando proteggere i propri beni stabilendo chiare regole politiche ed economiche, appoggiarono l’accordo di associazione all’UE.
La grande imprenditoria desiderava anche l’accesso ai mercati europei e temeva la possibilità di essere fagocitata dai concorrenti russi qualora l’Ucraina avesse aderito all’Unione doganale eurasiatica, a guida russa. Tutto era pronto per la cerimonia di ratifica al summit UE di Vilnius, fissato per il 28 novembre 2013. Poi, una settimana prima del summit, il governo ucraino cambiò improvvisamente rotta, proponendo di rinviare la firma dell’accordo. Janukovyč si recò a Vilnius, ma si rifiutò di firmare alcunché. Se i leader europei erano delusi, molti cittadini ucraini erano assolutamente infuriati.
Il governo aveva tradito le promesse fatte nel corso dell’anno precedente, frantumando le speranze in un migliore futuro europeo. Erano questi i sentimenti degli uomini e delle donne – molti dei quali avevano già preso parte alle precedenti proteste – che si riunirono a Majdan, la piazza dell’Indipendenza dell’Ucraina, la sera del 21 novembre, dopo che il governo ebbe annunciato il suo rifiuto di firmare l’accordo. I collaboratori di Janukovyč volevano porre fine alle proteste il prima possibile, per scongiurare il rischio di una nuova Rivoluzione arancione. La notte del 30 novembre la polizia antisommossa attaccò brutalmente gli studenti radunati in piazza. Questo era proprio ciò che la società ucraina non era disposta a tollerare.
Il giorno dopo, più di mezzo milione di kievani, alcuni dei quali genitori e parenti degli stessi studenti picchiati dalla polizia, si riversò nel centro di Kiev, trasformando Majdan e i suoi dintorni in uno spazio di libertà dal governo corrotto e dalle sue forze di polizia. Ciò che era iniziato come una richiesta d’ingresso in Europa si trasformò nella Rivoluzione della dignità, alla quale aderirono diverse forze politiche, dai liberali dei partiti di centro fino ai radicali e ai nazionalisti. Anche questa volta, come già nel 2004, i manifestanti si rifiutarono di lasciare le strade. A metà gennaio del 2014, dopo che il governo aveva cercato di mettere fuori legge le proteste, scoppiarono sanguinosi scontri tra i manifestanti e la polizia, rafforzata da bande di picchiatori assoldate dal governo. Il culmine delle violenze venne raggiunto il 18 febbraio.
In soli tre giorni morirono settantasette persone: nove poliziotti e sessantotto manifestanti. Queste uccisioni provocarono un drastico capovolgimento tanto in Ucraina quanto nella comunità internazionale. La minaccia di sanzioni costrinse i membri del parlamento, molti dei quali temevano di essere colpiti personalmente dalle sanzioni, a vincere la paura di ritorsioni presidenziali e ad approvare una risoluzione che proibiva l’uso della forza da parte del governo. La notte del 21 febbraio, con la polizia antisommossa scomparsa dalle strade della capitale e il parlamento ormai schierato contro Janukovyč, il presidente fuggì dalla rivoluzionaria Kiev.
I manifestanti avevano avuto la meglio: il tiranno era scappato e la rivoluzione aveva vinto. Il parlamento votò la rimozione di Janukovyč, la nomina di un presidente ad interim e la creazione di un nuovo governo provvisorio guidato dai leader dell’opposizione. Le proteste di Kiev sorpresero gli osservatori politici, perché rappresentavano un inconsueto caso di mobilitazione di massa suscitata da questioni di politica estera. I manifestanti volevano legami più stretti con l’Europa e si opponevano all’ingresso dell’Ucraina nell’Unione doganale eurasiatica guidata dalla Russia.
Le ambizioni di Mosca di dominare l’Ucraina furono un importante fattore nelle proteste di Majdan. Vladimir Putin, che governava la Russia fin dal 2000 – prima come presidente, poi come primo ministro e infine nuovamente come presidente –, aveva apertamente dichiarato che il collasso dell’Unione Sovietica era stato la più grave catastrofe geopolitica del XX secolo. Prima di reinsediarsi nell’ufficio presidenziale, nel 2012, Putin affermò che la reintegrazione dello spazio postsovietico rappresentava uno dei suoi principali obiettivi. Come nel 1991, questo spazio rimaneva incompleto senza l’Ucraina. Putin voleva che Janukovyč, da lui sostenuto nelle elezioni presidenziali del 2004 e del 2010, entrasse nell’Unione doganale eurasiatica, base di partenza per una futura e più ampia unione economica e politica degli stati postsovietici.
Janukovyč, che aveva fatto concessioni alla Russia prolungando l’affitto della base navale di Sebastopoli per venticinque anni, non era affatto desideroso di entrare in una qualsivoglia unione a guida russa. Viceversa, in un fallito tentativo di controbilanciare la crescente influenza e ambizione di Mosca, si orientò verso un’associazione con l’Unione Europea, preparandosi a firmare l’accordo.
La Russia rispose nell’estate del 2013 scatenando una guerra commerciale contro l’Ucraina e chiudendo i propri mercati ad alcune sue merci. Per fermare la deriva occidentale dell’Ucraina, Mosca usò tanto il metodo del bastone quanto quello della carota. Del secondo faceva parte la promessa di un prestito da quindici miliardi di dollari per salvare lo squattrinato e corrotto governo di Kiev da un’imminente bancarotta. La prima tranche di questo denaro giunse dopo il rifiuto di Janukovyč di firmare l’accordo con l’UE. Ma le proteste di Majdan mandarono all’aria i piani del Cremlino. Secondo un’indagine successivamente condotta dal servizio di sicurezza ucraino, nei giorni che portarono all’uccisione di decine di manifestanti in piazza Majdan erano presenti agenti della sicurezza russa.
Queste morti provocarono la rimozione di Janukovyč. All’inizio di febbraio del 2014 a Mosca stava iniziando a diffondersi l’idea di sfruttare la crisi interna dell’Ucraina per annettere la Crimea e per destabilizzare e infine annettere alla Russia parti dell’Ucraina orientale e meridionale. A giudicare dagli eventi successivi, il progetto rimase lettera morta. Come ebbe modo di dichiarare lo stesso Putin, fu proprio lui a prendere personalmente la decisione di «restituire» la Crimea alla Russia in occasione di un incontro con i suoi consiglieri politici e militari la notte del 22 febbraio 2014.
Quattro giorni dopo, nella notte del 26 febbraio, una banda di uomini armati e con uniformi prive di insegne assunse il controllo del parlamento crimeano. Sotto la sua protezione, i servizi di intelligence russi organizzarono la nomina del leader di un partito filorusso, che nelle precedenti elezioni parlamentari aveva ottenuto soltanto il 4 percento dei voti, a nuovo primo ministro della Crimea. Poi le truppe russe, spalleggiate da formazioni mercenarie fatte arrivare dalla Federazione Russa almeno una settimana prima dell’inizio dell’operazione, bloccarono nelle loro basi le unità militari ucraine, con l’aiuto di milizie reclutate in loco. Mentre il nuovo governo ucraino cercava di assumere il controllo delle forze di polizia e di sicurezza precedentemente fedeli a Janukovyč, il Cremlino accelerò i preparativi per una completa conquista della penisola, organizzando in tutta fretta un referendum per deciderne il destino.
Il nuovo governo della Crimea oscurò i canali televisivi ucraini, impedì la consegna dei quotidiani ucraini agli abbonati e scatenò la propaganda in favore della secessione della Crimea. Coloro che si opponevano al referendum, molti dei quali appartenevano alla minoranza tatara, vennero fatti oggetto di intimidazioni o furono addirittura rapiti.
A metà marzo del 2014 i cittadini si recarono ai seggi per votare la possibile riunificazione con la Russia. I risultati del referendum sponsorizzato da Mosca ricordavano quelli dell’epoca Brežnev, quando l’affluenza era stimata al 99 percento e la stessa cifra veniva indicata per la percentuale dei votanti in favore dei candidati di governo. Ora si proclamò che il 97 percento dei votanti aveva sostenuto l’unificazione della Crimea con la Russia. A Sebastopoli i funzionari locali riferirono che il voto in favore della Russia era pari al 123 percento dei votanti registrati. Le nuove autorità dichiararono che l’affluenza totale era stata dell’83 percento, ma secondo il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite distaccato presso l’ufficio del presidente russo meno del 40 percento dei votanti registrati aveva preso parte al referendum. Il 18 marzo, due giorni dopo il referendum, Vladimir Putin sollecitò i legislatori russi ad annettere la Crimea come atto di giustizia storica, riparando il danno arrecato alla Russia dalla disintegrazione dell’Unione Sovietica.
Kiev non riconobbe il referendum, ma non era in grado di opporvisi concretamente. Quindi ordinò alle sue truppe di ritirarsi dalla penisola, non essendo pronta a rischiare la guerra in un paese ancora diviso dal disordine politico della Rivoluzione della dignità. L’esercito ucraino, rimasto per decenni sottofinanziato e privo di esperienza di guerra, non poteva reggere un confronto militare con le ben addestrate ed equipaggiate truppe della Federazione Russa, che avevano combattuto un lungo conflitto in Cecenia e condotto l’invasione della Georgia nel 2008.
Kiev era anche impegnata a fermare i tentativi di destabilizzazione da parte di Mosca in altre aree del paese. Il Cremlino richiedeva la «federalizzazione» dell’Ucraina, con la clausola che ogni regione avrebbe dovuto disporre del potere di veto sulla ratifica di accordi internazionali. La Russia non voleva semplicemente la Crimea: stava cercando di fermare l’avvicinamento dell’Ucraina all’Europa manipolando le élite e le popolazioni locali nel sud-est del paese.
Se l’Ucraina si fosse rifiutata di seguire il progetto di «federalizzazione» russa, rimaneva un’altra opzione: la partizione del paese, con la trasformazione dell’Ucraina orientale e meridionale in un nuovo stato cuscinetto. Una formazione politica controllata da Mosca chiamata Nuova Russia (Novoróssija) avrebbe dovuto includere le oblasti di Charkiv, Luhans’k, Donec’k, Dnipropetrovs’k, Zaporižžja, Mykolaïv, Cherson e Odessa, permettendo un accesso terrestre alla Crimea e alla regione moldava della Transnistria, sotto il controllo russo. Il progetto non sembrava realizzabile, dato che nell’aprile del 2014 soltanto il 15 percento della popolazione di questa immaginata Nuova Russia appoggiava l’unificazione con la Russia, mentre il 70 percento era contrario.
Ma il sud-est non era omogeneo. Il sentimento filorusso era piuttosto forte nella regione industrializzata del Donbass, dove, secondo i sondaggi, il 30 percento della popolazione sosteneva l’unificazione con la Russia, e invece tenue nell’oblast’ di Dnipropetrovs’k, dove i sostenitori della Russia
rappresentavano meno del 7 percento della popolazione. I servizi di intelligence russi iniziarono la destabilizzazione dell’Ucraina partendo proprio dal Donbass nella primavera del 2014.
Il Donbass era una delle regioni economicamente e socialmente più inquiete dell’Ucraina. Parte della rust belt dell’Unione Sovietica e poi dell’Ucraina, aveva ricevuto enormi finanziamenti governativi per sostenere la morente industria del carbone. Donec’k, il principale centro della regione, era l’unica importante città ucraina dove i russi costituivano una fetta consistente della popolazione (48 percento). Molti cittadini del Donbass erano affezionati all’ideologia e ai simboli sovietici, con i monumenti a Lenin (che nell’Ucraina centrale erano stati in gran parte demoliti nel corso della Rivoluzione della dignità) a simboleggiare l’identità sovietica della regione. Il governo del presidente Janukovyč giunse al potere e lo mantenne mobilitando il proprio elettorato ucraino orientale, sottolineando le differenze linguistiche, culturali e storiche rispetto all’Ucraina centrale e soprattutto occidentale. Esso affermava che la lingua russa, dominante a livello regionale, era minacciata da Kiev, così come lo era la memoria storica della Grande guerra patriottica, apparentemente messa a repentaglio dai sostenitori dell’Esercito di insurrezione ucraino nella parte occidentale del paese. Per quanto la linea di demarcazione linguistica e le contrastanti memorie storiche si incuneassero effettivamente tra l’est e l’ovest dell’Ucraina, i politici esageravano le differenze ben oltre la loro reale importanza al fine di vincere le elezioni.
Tale opportunismo politico creò un terreno fertile per l’intervento russo. Unità paramilitari spesso addestrate e finanziate da Mosca e vicine agli oligarchi del Cremlino apparvero nel Donbass nell’aprile del 2014. In maggio avevano già assunto il controllo della maggior parte dei centri urbani della regione. Il deposto presidente Janukovyč usò i suoi ancora attivi legami politici e le proprie consistenti risorse finanziarie per contribuire a destabilizzare la sua regione natia.
Bande al soldo del presidente esiliato attaccarono i sostenitori del nuovo governo di Kiev, e poliziotti corrotti li aiutarono fornendo nomi e indirizzi di potenziali vittime. Le élite locali, guidate da Rinat Achmetov, un socio d’affari del deposto Janukovyč nonché il più ricco oligarca ucraino, stettero al gioco, nella speranza di proteggersi dai mutamenti rivoluzionari provenienti da Kiev, trasformando il Donbass in una sorta di avamposto sotto la bandiera delle autoproclamate repubbliche popolari di Donec’k e Luhans’k, che corrispondevano alle due oblasti che formavano la regione industriale del Donbass.
Ma sbagliarono i propri calcoli, e alla fine di maggio avevano perso il controllo della regione a favore dei nazionalisti russi e degli attivisti locali, che scatenarono una rivoluzione antioligarchica. Come a Kiev, anche a Donec’k la gente era stanca della corruzione, ma nel Donbass molti si orientavano verso la Russia anziché verso l’Europa, e speravano non in un’economia di mercato libera dalla corruzione, bensì in un’economia a gestione statale di stile sovietico e in garanzie sociali. Se i manifestanti di Majdan consideravano il proprio paese parte della civiltà europea, gli insorti filo-russi si immaginavano parte di un più vasto «Mondo Russo» (Russkij Mir), e la loro guerra era una difesa dei valori ortodossi contro l’avanzata del corrotto Occidente europeo.
La perdita della Crimea e i disordini nel Donbass, così come gli sforzi russi per destabilizzare la situazione a Charkiv e Odessa, determinarono una nuova mobilitazione della società civile ucraina. Decine di migliaia di ucraini, molti dei quali avevano partecipato alle proteste di Majdan, entrarono nelle unità dell’esercito e in nuove formazioni volontarie per andare a combattere contro l’insurrezione a guida russa nell’est del paese. Poiché il governo era in grado di fornire ai soldati soltanto le armi, in tutta l’Ucraina sorsero organizzazioni volontarie, impegnate a raccogliere donazioni, acquistare rifornimenti e distribuirli sulle linee del fronte. La società civile si assumeva i compiti che lo stato non era in grado di svolgere. Secondo i dati forniti dall’Istituto internazionale di sociologia di Kiev, tra il gennaio e il marzo del 2004 la percentuale di coloro che sostenevano l’indipendenza ucraina salì dall’84 al 90 percento della popolazione adulta.
Viceversa, la percentuale di chi desiderava che l’Ucraina si unisse alla Russia scese dal 10 percento del gennaio 2014 al 5 percento nel settembre del medesimo anno. Perfino nel Donbass la maggior parte delle persone intervistate nei sondaggi considerava la propria regione parte integrante dello stato ucraino. Nel Donbass, la percentuale dei «separatisti» che volevano o l’indipendenza o l’unione con la Russia passò, tra l’aprile e il settembre del 2014, da meno del 30 percento a oltre il 40 percento, ma non raggiunse mai una maggioranza, lasciando alla gran parte degli ucraini filoeuropei la speranza di conservare quei territori, ma facendo anche presagire futuri problemi per la formazione di una comune identità nazionale.
Nelle elezioni presidenziali del maggio 2014, con una dimostrazione di unità politica, gli elettori ucraini garantirono la vittoria al primo turno di uno dei più importanti uomini d’affari ucraini, il quale aveva attivamente partecipato alle proteste di Majdan: il quarantanovenne Petro Porošenko. Con la fine della crisi di legittimità prodotta dalla deposizione di Janukovyč, l’Ucraina era ormai pronta a difendersi da aggressioni più o meno velate. All’inizio di luglio, l’esercito ucraino ottenne il suo primo importante successo: la liberazione della città di Slov’jansk, che era servita da quartier generale del più celebre comandante russo, un ex tenente colonnello dell’intelligence militare, Igor’ Girkin (Strelkov).
In un disperato tentativo di fermare l’avanzata ucraina, la Russia iniziò a fornire agli insorti nuovi armamenti, compresi missili contraerei. Secondo gli ufficiali ucraini e americani, il 17 luglio 2014 uno di questi missili abbatté un Boeing 777 della Malaysia Airlines con duecentonovantotto persone a bordo. Le vittime del disastro provenivano da Olanda, Malesia, Australia, Indonesia, Gran Bretagna e da un certo numero di altri paesi, il che conferiva al conflitto ucraino un carattere autenticamente globale.
La tragedia dell’aereo malese mobilitò i leader occidentali a favore dell’Ucraina, spingendoli a imporre sanzioni economiche contro i funzionari e gli uomini d’affari russi direttamente responsabili dell’aggressione. Ma queste sanzioni risultarono troppo esigue e troppo tardive. A metà agosto, quando le due repubbliche popolari separatiste di Donec’k e Luhans’k, appoggiate dalla Russia, si trovavano ormai sull’orlo della sconfitta, Mosca intensificò l’offensiva inviando in combattimento truppe regolari e mercenarie.
Più di mille soldati ucraini e membri dei battaglioni volontari furono accerchiati nella città di Ilovajs’k dall’avanzata delle forze russe. Quando raggiunsero un accordo con i comandanti russi per il ritiro dalla città e iniziarono le operazioni di evacuazione, gli ufficiali russi avanzarono nuove richieste e aprirono il fuoco sulle truppe in ritirata, provocando massicce perdite nello schieramento ucraino. All’inizio di settembre del 2014, dopo che l’avanzata ucraina nel Donbass era stata fermata e le truppe russe erano passate all’offensiva, il nuovo presidente eletto dell’Ucraina, Petro Porošenko, si incontrò a Minsk con la sua controparte russa, Vladimir Putin, per discutere una cessazione delle ostilità. Ai colloqui presero parte anche la cancelliera tedesca Angela Merkel e il presidente francese François Hollande. Il 5 settembre le parti in conflitto firmarono il Protocollo di Minsk, un complesso accordo che garantì un cessate il fuoco ma niente di più.
Nel gennaio del 2015 i due schieramenti erano di nuovo in guerra. I russi cercarono di ripetere i successi dell’anno precedente e accerchiarono le truppe ucraine presso il fondamentale snodo ferroviario di Debal’ceve. Questa volta gli ucraini erano pronti e preparati. La battaglia proseguì fino a febbraio, dando la possibilità alla Germania e alla Francia di intervenire nuovamente. Il 14 febbraio i leader di Germania, Russia, Francia e Ucraina si accordarono su un nuovo protocollo al quale venne dato il nome di «Minsk 2». Sebbene una delle sue condizioni fondamentali fosse il cessate il fuoco, gli scontri continuarono anche dopo la firma dell’accordo. La battaglia di Debal’ceve continuò a infuriare fino al 20 febbraio, quando le forze ucraine si ritirarono dalla città.
Altre condizioni previste dal protocollo risultarono non meno difficili da attuare. Tra esse vi erano la promessa ucraina di indire elezioni nella regione separatista e la promessa russa di cedere il controllo sul confine ucraino-russo alle truppe ucraine. La questione su quale delle due promesse dovesse avere la priorità sarebbe rimasta un pomo della discordia negli anni successivi.
Il Cremlino salvò le repubbliche autoproclamate dal collasso, ma non riuscì a realizzare il proprio piano originario per la creazione di una Nuova Russia: un organismo politico a guida russa, esteso da Donec’k, a est, fino a Odessa, a ovest, che avrebbe garantito un ponte terrestre dalla Russia alla Crimea. Mosca non riuscì neppure a impedire che Kiev rinsaldasse i propri legami politici ed economici con l’Occidente. Con l’Ucraina che si rifiutava di accettare qualsiasi riduzione del proprio territorio o di rinunciare ai propri obiettivi di integrazione politica, economica e culturale con l’Europa, la Russia che impediva all’Ucraina di uscire dalla sua sfera di influenza, e l’Occidente che rimaneva preoccupato per la minaccia all’ordine internazionale ma diviso sulla strategia migliore per tenere a bada le crescenti ambizioni russe, la guerra nell’est del paese si trasformò in un prolungato conflitto di cui all’orizzonte non si intravedeva la fine.
Le porte d‘Europa, Serhii Plokhy, Mondadori, 540 pagine, 25 euro