Il lettore non si sconcerti troppo: il personaggio che fa le domande sono io, che fingo di non saper nulla. E il personaggio che fornisce le risposte sono sempre io, che fingo di saper tutto. Cioè, ho scritto questo libro in forma di dialogo, e non c’è una ragione particolare se non quella che scriver dialoghi mi piace, e anche questo testo, come altri in precedenza, m’è venuto fuori così. D’altra parte – si parva licet– chiamo a mia difesa l’inventore di questo stile di racconto, vale a dire Platone. E di ciò basti.
[…]
«Le porte del teatro si sono aperte alle 8. Alle 9 l’immensa sala era già gremita in ogni ordine di posti da una folla elegante nella quale si notavano molte signore della migliore società cittadina. Gli alfieri con i gagliardetti sono schierati sul palcoscenico in rappresentanza delle legioni fasciste. Deputati e personalità fasciste indossano tutti la camicia e il fez nero. Poco prima delle 10 un trombettiere suona tre volte l’attenti. I fascisti si irrigidiscono, i gagliardetti sono levati in aria e agitati.
Gli spettatori si alzano in piedi, punti dalla curiosità: si crede difatti che i tre squilli preannuncino l’arrivo di Mussolini. Invece si è voluta fare una semplice prova: il trombettiere suona il riposo e il teatro è di nuovo tutto un brusio di commenti.Poco dopo, gli squilli sono ripetuti e questa è la volta buona. Mussolini indossa la camicia nera e reca sulle maniche i distintivi del grado, simili a quelli di generale d’esercito. Egli attraversa il palcoscenico fra uno scroscio di applausi e si avanza alla ribalta.
Tutto il teatro sorge in piedi, dai palchi e dalla platea molti sventolano cappelli e fazzoletti. Appena gli applausi cessano, una fanfara intona le note dell’inno fascista, e gli squadristi fanno coro. Quindi di nuovo uno squillo. Il silenzio si ristabilisce e Sansanelli, della direzione del partito, saluta a nome del fascio i convenuti da ogni parte d’Italia. Un altro segnale d’attenti. Mussolini, in mezzo a un silenzio completo, incomincia il suo discorso».
Che cos’è?
Il Corriere della Sera. […]
Ma la polizia… i carabinieri… le guardie regie…?
Ad aprile e a maggio del 1921 Giolitti, presidente del consiglio, aveva inviato parecchi ordini tassativi ai prefetti, perché garantissero uno svolgimento ordinato della campagna elettorale. I prefetti avevano risposto troppe volte che dar seguito a quegli ordini era impossibile, dato che la forza pubblica era connivente con i fascisti. Anche i magistrati mandavano spesso liberi gli assassini, e quando li condannavano i fascisti aspettavano i giudici sotto casa per pestarli.
Ha citato una campagna elettorale che Giolitti voleva si svolgesse regolarmente. Di che campagna elettorale si tratta?
Quella per le elezioni del maggio 1921.
Di queste elezioni non abbiamo parlato.
La camera era ingovernabile e il re la sciolse. Mussolini, che s’era arruffianato in mille modi con Giolitti, gli chiese di far blocco con i fascisti e andare alle elezioni insieme. Giolitti pensava, come sempre, che si trattasse di far entrare nel sistema i fascisti, e poi di addomesticarli. Il solito sistema che aveva funzionato con i cattolici e spaccato i socialisti. Accettò, e in questo modo entrarono alla camera trentacinque camicie nere. Tra questi anche Mussolini, il quale ebbe un risultato trionfale, specie se paragonato ai duemilacinquecento voti che aveva preso nel 1919: 197.620 voti a Milano, 173.243 a Bologna.
Quindi la violenza sul territorio pagava. […]
Mussolini, avendo il partito a disposizione, sarà pure stato in grado di “dare la linea”. Ma la violenza non l’aveva fermata.
Anzi la teorizzava. Intanto, sia Il Popolo d’Italia che Il Fascio davano conto, senza nasconder nulla, degli eccidi compiuti dai camerati. Ne fornivano una lettura politica. Per esempio, Il Fascio del 19 marzo 1921 scriveva: «Insegnare agli avversari come si lotta e come si muore e, soprattutto, ricordare ai fascisti d’Italia che oggi una tregua d’armi, quando non fosse una enorme sciocchezza, sarebbe una grave colpa».
E quello del 30 aprile:
«Ovunque i fascisti invadono le sedi delle Associazioni bolsceviche, sequestrandone bandiere rosse o nere, espongono il tricolore ai municipi rossi, tengono conferenze e comizi […] I bolscevichi paesani sono letteralmente sbigottiti e terrorizzati e assistono passivamente al crollo del loro edificio […] La parte sana della popolazione, ch’è la grandissima maggioranza, accoglie i fascisti come liberatori e si risveglia e si rianima, come se uscisse da un incubo pauroso».
Quanto a Mussolini, aveva elaborato una filosofia della violenza:
«La violenza non è immorale. La violenza è qualche volta morale. Noi contestiamo a tutti i nostri nemici il diritto di lamentarsi della nostra violenza, perché paragonata a quelle che si commisero negli anni infausti del ’19 e del ’20 e paragonata a quella dei bolscevichi di Russia, dove sono state giustiziate due milioni di persone, e dove altri due milioni di individui giacciono in carcere, la nostra violenza è un gioco da fanciulli.
D’altra parte la nostra violenza è risolutiva, perché alla fine del luglio e di agosto in quarantotto ore di violenza sistematica e guerriera abbiamo ottenuto quello che non avremmo ottenuto in quarantotto anni di prediche e di propaganda. Quindi, quando la nostra violenza è risolutiva di una situazione cancrenosa, è moralissima, sacrosanta e necessaria» (Udine, 20 settembre 1922). […]
Ma possibile che i socialisti… Zitti e buoni, senza reagire mai, a parte qualche episodio, qualche agguato…
Quell’agosto – agosto 1922 – i socialisti tentarono di rovesciare in modo definitivo la situazione, proclamando uno sciopero generale che Turati definì «legalitario». Il professor Scurati ha definito questa mossa «il giocatore che si gioca tutto sull’ultima carta, pronto poi, in caso di sconfitta, a farsi saltare le cervella».
Saputo dello sciopero, il primo di agosto il segretario del Partito nazionale fascista – il calabrese tubercolotico Michele Bianchi, gran testa politica – diffuse un ultimatum: «Diamo quarantotto ore di tempo allo stato perché dia prova della sua autorità in confronto di tutti i suoi dipendenti e di coloro che attentano all’esistenza della nazione. Trascorso questo termine, il fascismo rivendicherà piena libertà di azione e si sostituirà allo stato che avrà dato ancora una volta prova della sua impotenza».
Da La marcia su Roma, Giorgio Dell‘Arti, La nave di Teseo, 256 pagine, 10 euro