Non basta tagliare i capelliIn Iran si manifesta per la libertà di tutti, non solo delle donne

Il racconto di Negar Banihashemi, 32enne architetta, in Italia da due anni: «Una delle caratteristiche di questo movimento è che non è individualistico, i manifestanti sanno benissimo cosa vogliono: una vita normale sotto un governo democratico e sotto la bandiera nazionale»

Foto Cecilia Fabiano /LaPresse

«La linea Internet ora è stata tagliata. Ma anche quando c’era, era molto debole. E comunque non potevamo usare Whatsapp o Instagram perché erano controllati». Negar Banihashemi, 32enne iraniana, studia al Politecnico di Milano e nel frattempo lavora come architetto. È in Italia da due anni. E da quando il regime di Teheran ha bloccato l’accesso a Internet dopo le proteste esplose in seguito alla morte di Masha Amini, riesce a comunicare a stento con chi è rimasto in Iran.

Da Milano, però, Negar prova a rendersi utile usando i social network per informare su quello che accade nel suo Paese. Nei suoi post, dà aggiornamenti sulle manifestazioni, invita a firmare petizioni sulle violazioni delle sanzioni da parte dei membri del regime che vivono negli Stati Uniti e paragona la guida suprema Khamenei ad Adolf Hitler.

È ormai da un mese che i suoi concittadini di diversa età, religione ed estrazione sociale scendono in piazza a Teheran, e in decine di altre città iraniane, scandendo slogan contro il regime autoritario. Nonostante la pesante repressione della polizia, che avrebbe provocato ormai oltre 400 vittime, le piazze continuano a riempirsi.

«Sui media occidentali si parla molto della rivolta delle donne iraniane, si fanno seminari sulla discriminazione e si sta diffondendo la campagna di solidarietà con il taglio simbolico dei capelli», dice Negar. «È tutto molto apprezzabile, ma non basta. Ci serve maggiore supporto. Perché questa non è solo una lotta delle donne contro l’obbligo del velo. In Iran c’è un problema di libertà e democrazia che riguarda tutti. Ogni giorno vengono uccise decine di persone in tutte le parti del Paese, ci sono migliaia di prigionieri politici, non abbiamo libertà di stampa. È una questione di diritti per tutti».

Certo, la popolazione femminile iraniana subisce pesanti restrizioni da oltre 40 anni. Negar, che non proviene da una famiglia particolarmente religiosa, è stata obbligata a indossare l’hijab dall’età di nove anni. «Non possiamo lasciare l’Iran senza il permesso dei mariti o dei padri, non abbiamo accesso allo stadio. E in caso di eredità, possiamo beneficiare solo della metà delle somme rispetto agli uomini», racconta. Mentre gli uomini «hanno il diritto di divorziare e possono avere più di una moglie». Eppure, anche per loro esistono restrizioni sull’abbigliamento, come «il divieto di usare i pantaloni corti nei luoghi pubblici».

Ma stavolta la protesta, partita dalle donne di Teheran, si è allargata agli studenti universitari fino ai lavoratori delle raffinerie petrolifere. Il tappo di quella che formalmente viene definita come una teocrazia islamica, guidata da radicali conservatori, sembra essere saltato alimentando una protesta antigovernativa che chiede di mettere fine all’autoritarismo.

«L’obiettivo finale della protesta», spiega Negar, «non sono solo i diritti delle donne, ma la libertà dell’Iran e la richiesta di aiuto da parte della popolazione». E la rivendicazione per maggiori diritti ora si intreccia con la crisi economica, tra i prezzi in crescita dovuti all’inflazione, i salari bassi e le conseguenze delle sanzioni occidentali che stanno impoverendo anche la classe media. «Anche se l’Iran è un Paese molto ricco di petrolio e gas, ci sono cittadini che non hanno neanche accesso all’acqua potabile», racconta Negar. «I prezzi hanno raggiunto un livello tale che una grande quantità di prodotti alimentari, come carne, pollo e uova, sono stati ormai rimossi dal carrello della spesa. E le sanzioni si fanno sentire solo sulla popolazione comune, non certo sul regime. Tanti rappresentanti del regime hanno trasferito ormai molti dei loro capitali all’estero e i loro figli non vivono più in Iran».

Negar paragona le proteste nel suo Paese alle primavere arabe. «Una delle caratteristiche di questo movimento è che non è individualistico, i manifestanti sanno benissimo cosa vogliono: una vita normale sotto un governo democratico e sotto la bandiera iraniana». Fondamentalmente, «stiamo cercando un sistema sano», prova a spiegare. «Un sistema che può essere completamente alimentato dall’interno del Paese perché c’è sia tanta manodopera sia esperti, e fortunatamente siamo ricchi anche di risorse. Un governo normale può mettere il Paese sulla strada del progresso in pochi anni».

Negli ultimi anni, molti giovani iraniani come Negar hanno deciso lasciato l’Iran. «Sono emigrata dopo l’università per trovare la libertà e una vita migliore», racconta. Ora anche la sorella minore sta preparando valigie e documenti per trasferirsi in Europa. Ma con le tensioni delle ultime settimane, sembra tutto bloccato. «Molti giovani dopo gli studi vorrebbero andarsene», dice. «Ma tanti pensano anche che se se ne andranno le cose peggioreranno».

Per Negar ora ritornare a casa sembra impossibile. «Hai visto con quanta facilità uccidono le persone?», chiede. «Ma la cosa più importante è che il livello di consapevolezza e coscienza è cambiato molto. Le persone, anche con credenze diverse, non si gridano più slogan l’uno contro l’altro. Significa che stanno imparando, è la prima volta che si vedono cittadini diversi manifestare insieme. Non c’è un leader e nessuno lo sta cercando». Certo, «il cambiamento non avviene dall’oggi al domani. Ma quello che conta è che si sta creando una coscienza collettiva. Se continuiamo a fare muro comune, sono sicura che otterremo grandi risultati. Ma all’Occidente chiedo di fare di più».