È domenica, e il tempo è stupendo. La temperatura oscilla tra i 25° e i 30°, c’è il sole, e in questo momento Doha è uno dei posti migliori del mondo in cui stare.
È il 21 novembre 2021 e siamo alle fasi conclusive della stagione balneare, che in questa zona del mondo va a coincidere con quello che noi in Europa chiamiamo autunno. Inoltre, mentre nel resto del pianeta si parla di crescita dei contagi, di possibili lockdown e della nuova variante Omicron, qui la pandemia è ancora abbastanza sotto controllo: facile, in un Paese di meno di 3 milioni di abitanti in cui il reddito pro capite a parità di potere di acquisto è di 125.000 dollari l’anno, che secondo il Fondo Monetario Internazionale è il più alto al mondo.
Il Qatar deve gran parte del suo successo al fatto di essersi affermato come una meta turistica di grande lusso e anche molto sicura: qui il tasso di vaccinazione con doppia dose è superiore al 75% (in Francia, per dire, in questo momento è al 69%).
Halvor Ekeland e Lokman Ghorbani escono dal loro hotel, immergendosi nelle luci e nei riflessi dei palazzi di vetro di una città che sembra uscita da certi sogni della luminosa fantascienza anni Sessanta, solo riadattati al gusto razionale e per certi versi minimalista della modernità. È difficile immaginare che meno di un secolo fa, prima che fosse il petrolio a plasmare l’identità del Qatar, questa città fosse un modesto insediamento che si reggeva sulla pesca e la raccolta delle perle.
Ekeland e Ghorbani non sono turisti. Appartengono all’altra categoria di stranieri che visitano Doha: quelli che ci vengono per lavoro. Niente cifre astronomiche, sia chiaro: anche nella loro benestante Norvegia i due svolgono il relativamente modesto lavoro di giornalisti sportivi per una televisione locale, la NRK, la tv di stato di Oslo. Ekeland è il reporter, mentre Ghorbani è il suo cameraman.
Si occupano di calcio, ma non sono qui per seguire il campionato locale, la Qatar Stars League, che per inciso è in pausa da inizio mese, e alla nona giornata vede l’Al Sadd campione in carica di nuovo in testa in solitaria, grazie al tandem offensivo composto dall’ex-nazionale spagnolo Santi Cazorla, dal ghanese figlio e fratello d’arte André Ayew e dal bomber algerino Baghdad Bounedjah.
Ormai non c’è più motivo, per la stampa europea, di interessarsi delle sorti dell’Al Sadd: qualche settimana prima il suo allenatore Xavi Hernández Creus ha finalmente compiuto la profezia che da tempo lo voleva seduto sulla panchina del Barcellona, pronto a propiziare una nuova epoca d’oro del club catalano come quella avviata nel 2008, ai tempi in cui era ancora un calciatore, dal suo maestro Josep Guardiola.
No, Ekeland e Ghorbani sono qui per un altro motivo, e probabilmente se avete in mano questo libro saprete già qual è, nonostante questo estenuante giro intorno all’argomento a cui vi sto sottoponendo.
Sono venuti per condurre un’inchiesta sui numerosi cantieri della città, dove si stanno da anni costruendo impianti sportivi, alberghi e altre infrastrutture per ospitare al meglio i Mondiali di calcio che si svolgeranno, straordinariamente, tra novembre e dicembre, fra un anno esatto a partire da oggi.
I due norvegesi sono venuti a Doha perché da tempo nel loro Paese c’è un movimento di protesta che dice che quei Mondiali non li si dovrebbe giocare, perché il Qatar sfrutta senza pietà migliaia di lavoratori immigrati, originari per lo più di Bangladesh, India, Nepal e Filippine. Persone senza diritti, trattate come schiavi e costretti a lavorare e vivere da anni in condizioni disumane e che non si sa bene che fine faranno dopo che il loro lavoro sarà terminato. Diverse fonti sostengono ne siano già morti a migliaia, ma il governo di Doha nega categoricamente.
Poche ore prima, i due sono stati in collegamento con gli studi di Oslo, per raccontare cosa sta succedendo nel Paese dei primi Mondiali mediorientali della storia. «Abbiamo avuto alcuni incontri con dei lavoratori, molti di loro non vogliono parlare con i giornalisti davanti a una videocamera» ha raccontato Ekeland. «Quando ho chiesto loro un’intervista, ho visto la paura nei loro occhi».
Il loro lavoro, lì a Doha, non è andato del tutto come sperato: poco materiale utilizzabile in tv, zero testimonianze dirette. Avevano un appuntamento con Abdullah Ibhais, un ex-funzionario governativo che ha criticato duramente il governo di Doha per il trattamento dei lavoratori immigrati nei cantieri del Mondiale, ma appena arrivati lì si sono resi conto che non era più possibile parlare con lui, dato che era stato arrestato con l’accusa di corruzione.
E così, dopo una settimana di difficoltoso lavoro all’ombra dei grattacieli di una delle città più lussuose e alla moda del pianeta, Halvor Ekeland e Lokman Ghorbani lasciano il loro hotel, caricano le loro valigie su un taxi e si apprestano a trasferirsi all’aeroporto internazionale Hamad, dove li aspetta un aereo per la Norvegia.
Ma mentre sono lì, fuori dall’albergo, alcuni uomini in divisa si fanno loro incontro e in inglese comunicano ai due giornalisti che non possono partire e che devono prima seguirli in commissariato: sono stati accusati di violazione della proprietà privata e di aver filmato senza permesso. È una vendetta per aver raccontato in diretta tv cosa succede in Qatar? No, semplicemente facendo le loro riprese hanno attraversato e filmato una proprietà privata, e il titolare li ha denunciati alla polizia. Molto credibile.
I due giornalisti trascorreranno circa ventiquattr’ore in custodia, quindi verranno rilasciati senza accuse e potranno tornare a casa loro. Ma il messaggio è stato chiaro: tra un anno, pensateci bene prima di venire di nuovo qui.
Estratto da “La coppa del morto. Storia di un mondiale che non dovrebbe esistere” di Valerio Moggia, Ultra edizioni. 13,00€; pp. 112, © 2022 Lit edizioni per gentile concessione