Dobbiamo a Rebecca West l’anatema più feroce mai scagliato contro il proverbiale snobismo di Virginia Woolf e dei suoi amici. Ricordando gli habitué di Bloomsbury – di cui la prima era ospite saltuaria, la seconda vestale indefessa – Rebecca scrive: “Era un gruppo che assomigliava al clan di Madame Verdurin, ma si considerava come i Guermantes”. Temo che le mie competenze mondane non siano abbastanza solide da permettermi di valutare l’effettivo posto occupato da Virginia e il suo clan nell’Inghilterra post-vittoriana. Del resto, bisogna considerare che è tipico degli snob (non solo proustiani) sovrastimare la propria effettiva rilevanza sociale.
Ciò detto, per capire la stoccata di Rebecca basta considerare gli afflati di Virginia verso la sua amante più celebre: l’aristocratica bas-bleu Vita Sackville-West. A sedurre Virginia, oltre alle indubbie grazie dell’amica, l’intelligenza, lo spirito ribelle, è l’avito castello nel Kent in cui abitava, ricco com’era di cimeli, ritratti, reliquie secolari dal valore inestimabile. Eccolo qui, lo snobismo di Virginia Woolf, simile come una goccia d’acqua a quello praticato dal giovane Proust, il suo gemello francese. Evidentemente l’incanto prodotto da blasoni e vestigia aristocratiche su certi spiriti borghesi – tanto sofisticati quanto impressionabili – si configura sempre e solo in un modo: come malia che non dà scampo.
D’altronde, è stata Virginia stessa a denunciarsi in uno dei suoi ultimi autoritratti, tra i più spiritosi. “Se mi si domandasse chi vorrei conoscere, Einstein o il Principe di Galles, io sarei tutta per il principe, senza esitazioni”. Dio solo sa se Proust l’avrebbe capita. Il che forse spiega perché la Recherche, al suo apparire, abbia esercitato su Virginia un fascino immediato e doloroso.
È l’aprile del 1925 quando, in preda a uno dei frequenti accessi di sconforto, annota: “Mi chiedo se questa volta sono riuscita a realizzare qualcosa. Be’, nulla comunque, in confronto a Proust, nel quale sono immersa. Quello che Proust ha è l’unione dell’estrema sensibilità con l’estrema tenacia. Esamina quelle sfumature di farfalla sino all’ultima venatura. È resistente come il filo per suture ed evanescente come la polvere d’oro di una farfalla”.
Mi ha sempre colpito lo straordinario ascolto che Proust ricevette sin dal principio dagli scrittori anglosassoni e francofili: Woolf, Beckett, Wilson. Occorre ricordare che nella primavera del ’25 la Recherche è ancora in corso di pubblicazione: neanche il lettore più ottimista può immaginare la svolta che l’uscita dell’ultimo volume imprimerà alla percezione stessa dell’ecosistema proustiano. Frattanto Virginia, appena quarantatreenne, ha dato alle stampe La signora Dalloway, si appresta a pubblicare Il lettore comune, e già si spacca la testa su Al faro. È in un momento di grazia. Ovvio che la Recherche le provochi un’emozione violenta: se da un lato prende a venerarla con fervore, dall’altro se ne sente soverchiata.
Uno dei torti di questa immane opera letteraria è di somigliare davvero troppo al genere di libro che lei vorrebbe scrivere. Teme, com’è normale che sia, che possa contenderle lo spazio vitale. D’altro canto, lodare la tenacia di Proust significa rendere merito alla risorsa morale più preziosa di cui disponga uno scrittore, una qualità di cui Virginia si sente disgraziatamente sprovvista.
Sono solo alcune delle sintonie, contiguità, risonanze che legano questi due sommi narratori modernisti. E mi sembrano così numerose e imprevedibili da scoraggiare chiunque voglia darne conto nel modo più dettagliato. Forse ci vorrebbe un libro; ma soprattutto qualcuno capace di scriverlo.
I Proust erano decisamente più ricchi degli Stephen, in compenso non potevano contare su analoghe credenziali culturali e accademiche. Scrive Virginia: “Discesa da una numerosa ascendenza, in parte famosa, in parte oscura; nata in una famiglia molto ramificata, nata da genitori non ricchi ma agiati, nata in un mondo fine secolo che amava comunicare idee, scrivere lettere, farsi visita, conversare, elaborare idee; sicché potrei, se volessi, scrivere a lungo non solo di mia madre e mio padre, ma di zie e zii, di cugini e amici”. Marcel avrebbe sottoscritto quasi alla lettera.
È quel momento lì, dopotutto: la breve stagione della storia europea in cui nell’immaginario dei giovani altoborghesi di terza generazione l’arte prende il posto degli affari. Lo spirito competitivo – ossessione filistea per antonomasia, spregevole e funzionale a un tempo – anima sia Marcel che Virginia in modo cocente e per così dire patologico. I due ragazzi sono, sì, attratti dal bel mondo, ma al contempo coltivano smodate ambizioni artistiche. Un’aporia che ne genera un’altra, se possibile, più indigesta: sono affetti dalla sindrome che mescola il complesso di inferiorità alla presunzione di grandezza. Neanche il successo, peraltro piuttosto tardivo, consentirà loro di dipanare la matassa.
Confrontando Combray e Al faro – monumenti consacrati al mito dell’infanzia felice – si avverte subito un’affinità nel modo di accostarsi agli spettri del passato. La madre del Narratore e la signora Ramsay sono figure discrete, solerti e carismatiche, devote alle virtù coniugali ma smaniose di stabilire con la prole un rapporto privilegiato e simbiotico. L’ombra della morte è lì a minacciarle con cupa determinazione. I motivi, i temi di Combray e Al faro sono pressappoco gli stessi: vacanze, passeggiate, convivi, letture, gossip, rapporti con il vicinato; in parole povere, le delizie e i crucci dell’infanzia borghese su cui gravano solitudine e senso della fine.
Nel diario, Woolf confessa di essere “morbosamente ossessionata” dai suoi genitori. Orfana già da qualche lustro, si sente ancora intimidita dall’autorevolezza del padre (ci viene subito in mente il ritratto del signor Ramsay). Ricorda come quell’uomo misterioso e intelligentissimo fosse sordo all’arte, alla musica, alla buona narrativa e ai piaceri della socialità: ambiti, a quanto pare, assai più congeniali alla moglie. Sarà pure un caso ma Leslie Stephen, almeno in questo ritratto lasciatoci dalla figlia minore, ricorda parecchio l’Adrien Proust delle pagine iniziali della Recherche, così come la signora Ramsay ricorda la madre del Narratore.
Dopo essermi dilungato sul classismo di questi rampolli di buone famiglie parigine e londinesi sarebbe stucchevole che mi impegnassi a decantarne i gusti erotici. Mi preme, tuttavia, notare che vivere alla luce del sole la propria omosessualità nella Francia della Terza repubblica e nell’Inghilterra edoardiana non è impresa facile, né scelta saggia, soprattutto in certi ambienti. Marcel e Virginia non nascondono del tutto le proprie inclinazioni, ma si guardano bene dal rivendicarle o dal farne pubblico sfoggio. La traccia lasciata da tanta doppiezza, e dall’inevitabile mimetismo che ne consegue, è il rapporto difficile che entrambi intrattengono con la vita intima, un disagio che scantona nella sessuofobia.
Tralascio volentieri anche i legami con il mondo ebraico. La madre di Marcel è israelita, così come il marito di Virginia. Eppure, sebbene implicati con il giudaismo, o forse proprio in virtù di tale promiscuità, nutrono pregiudizi che oggi potrebbero essere confusi per istinti antisemiti. È l’altra faccia, la più bieca, dello snobismo. Ma come dicevo: stenderei un velo pietoso.
Infine sorvolerei su altri due aspetti, questi sì davvero interessanti ma che forse meriterebbero un discorso specifico. Anzitutto la malattia. Che sia di natura fisiologica o nervosa, Marcel e Virginia sono afflitti da tare impedienti che spingeranno il primo a una specie di eutanasia e la seconda al suicidio. Un altro lato caratteriale che li accomuna è l’inclinazione agli struggimenti nostalgici. Il passato è un luogo remoto di delizie e ispirazione, ma anche l’origine di tanti misteriosi avvilimenti. A tal proposito, è rivelatore lo spazio che la Grande Guerra occupa nelle rispettive opere. Sia per lui che per lei, quella mostruosa mattanza che decimò un’intera generazione di giovani uomini rappresenta una specie di spartiacque tra l’incalzare del presente e il passato edenico e irrecuperabile.
Ma lasciamo tutto questo in un angolo e prestiamo attenzione a un’altra contraddizione, un’antinomia che nessuno dei due ha saputo risolvere. Di rado il gusto squisito per la frivolezza si accompagna all’introspezione. Eppure, considerando il caso Proust-Woolf, vien da chiedersi se tra queste attitudini non esista un legame segreto. I lettori che si avvicinano per la prima volta a Proust e Woolf rimangono sconcertati, se non indispettiti, dalla sostanziale fatuità della messinscena romanzesca. Non è facile impratichirsi con la masnada di ricchi sfaccendati alle prese con sordide faccende romantiche e intrallazzi mondani. Ci sono lettori, invece, che soffrono il bagno di interiorità, quel tour de force spirituale che affatica
la narrazione rendendola lenta e farraginosa.
Tale dicotomia trova un corrispettivo nella gestione altrettanto complessa della vocazione artistica, in bilico tra dilettantismo e misticismo. Parliamo di mondani che non fanno altro che invocare la solitudine. Incalliti festaioli costantemente tentati dall’ascesi e dalla misantropia. Tra pareti ricoperte di sughero e stanze tutte per sé, sono ossessionati dal giudizio altrui (ne faranno una malattia); allo stesso tempo, nelle cose dello spirito rivelano una formidabile indipendenza e spregiudicatezza. Sospetto che ci sia di mezzo la bellezza: il modo prepotente in cui essa li domina, fin quasi a straziarli. Il lusso borghese e aristocratico, le dolcezze della vita agiata, le delizie della mondanità, gli incanti dell’arte, i miracoli della natura, le malattie nervose, gli amori, le invidie e le gelosie esercitano su questi spiriti irrequieti un sortilegio fatale. Sotto l’influsso dei grandi esteti vittoriani – Pater e Ruskin su tutti – Marcel e Virginia finiranno per ridurre la bellezza a una questione di vita o di morte.
Ecco perché si danno tanta pena nel recuperare certi istanti privilegiati, lottando per strapparli alla contingenza con i magri strumenti offerti dalla prosa. La vita è degna di essere vissuta a patto che ogni tanto riveli una qualche sacralità. Non stupiamoci allora se Proust e Woolf, senza mai mettere in discussione l’ateismo, ricorrano così spesso a metafore religiose. Se per i decadenti Dio è nel dettaglio, per i modernisti Dio è nell’istante, ossia in un’essenza ineluttabilmente fuggevole e beffarda.
Proust senza tempo, Alessandro Piperno, Mondadori, 156 pagine, 19 euro