Grazie ai satelliti europei, per la prima volta abbiamo riscontrato nell’Antartico una dinamica tipica dell’altro polo del pianeta. Pensavamo che non risentisse di cicli stagionali di questo tipo, ma pure qui i movimenti del ghiaccio accelerano durante l’estate. Sbagliavamo. Non ce ne eravamo accorti anche perché osservavamo troppo poco questa regione.
Il programma Copernicus dell’Agenza spaziale europea (Esa) ha usato il radar. A differenza delle tecnologie ottiche, permette di rilevare immagini attraverso le nubi e la pioggia, di notte e di giorno. Del potenziale dei satelliti per monitorare il cambiamento climatico, dei progetti futuri, ma anche della valenza democratica dei dati, abbiamo parlato con Mark Drinkwater, che guida la Earth and Mission Science Division dell’Esa.
Negli ultimi decenni, la penisola antartica ha subìto gli effetti del surriscaldamento globale. In uno studio pubblicato su Cryosphere, i ricercatori hanno misurato come, durante l’estate antartica, aumenti del 15% la velocità a cui scivolano in mare i ghiacciai della Piattaforma Giorgio VI. Quando il ghiaccio fonde, si innalzano i livelli degli oceani: per quanto distante dai poli, nessuno può considerarsi al riparo.
I satelliti stanno facendo la differenza nel documentare il climate change?
«Guardiamo all’evoluzione degli ultimi trent’anni. A fine anni Ottanta, e negli anni Novanta, non avevamo la possibilità di osservare l’Antartico in modo regolare. Ci passava periodicamente sopra un satellite e fino a pochi anni fa non avevamo dati giorno per giorno, ma magari mese per mese. Il vero momento “game changer” è stato poter fare una mappatura costante. Fino a Copernicus, non ne avevamo la possibilità. Molti fenomeni, però, hanno più cicli durante lo stesso giorno. L’influenza dell’oceano, dell’atmosfera, hanno un impatto di lungo termine. Volevamo fare nuova luce su questo problema scientifico.
Quanto è rilevante questa ultima ricerca?
«Tutti gli occhi della comunità scientifica sono puntati su come l’Antartico sta rispondendo al cambiamento climatico. La domanda da un milione di dollari è se la fusione del ghiaccio accelererà anche qui. Nell’emisfero boreale eravamo abituati a fenomeni di questo tipo, ma non li avevamo mai osservati nell’oceano Antartico. È il primo segno del surriscaldamento, simile a quello che vedevamo già in Groenlandia, ed è preoccupante perché rischiamo di avere più ghiaccio in mare. In generale, quelli dello studio sono i posti dove guardare per capire se la calotta fonde».
Siamo certi che stia succedendo, ma quali sono le cause?
«Forse la responsabilità è dell’oceano, perché le correnti portano calore alla base dei blocchi di ghiaccio. Con il surriscaldamento globale, arriva una quantità sempre maggiore di acqua nella parte più vulnerabile, sulla linea dove il ghiaccio inizia a fondere. Lì può fare i danni peggiori. Non siamo ancora sicuri della causa, ma abbiamo visto solo per la prima volta che il ghiaccio è esposto a questo rischio anche durante l’estate antartica».
Ci sono altri casi in cui i satelliti hanno consentito un salto di qualità?
«Ad esempio, per gli incendi boschivi. La scorsa estate li abbiamo osservati in Europa, a causa della siccità, ma l’anno prima avevano colpito la Siberia, a latitudini superiori. Quando bruciano le foreste, ci sono conseguenze anche per l’atmosfera, con emissioni di gas serra come risultato della combustione. Con Copernicus abbiamo messo a punto un sistema di misurazione che ci permette di tracciare il black carbon (è una delle particelle che formano il Pm10, costituita principalmente da carbonio prodotto dalla combustione incompleta di combustibili fossili e di biomasse, ndr) e come queste sostanze inquinanti si spostino nell’atmosfera. Possiamo poi fare l’analisi chimica di questi gas. La combinazione di tutte queste informazioni ci permette non solo di capire dov’è un rogo, cosa fondamentale per i soccorsi e per individuare il fronte dell’incendio, ma possiamo andare anche oltre».
Ci può fare ulteriori esempi?
«Abbiamo scoperto le emissioni generate dalle discariche. È una cosa molto rilevante per l’Accordo di Parigi. Ci siamo riusciti collaborando con una società privata. I rifiuti hanno un impatto sul metano. Se le nazioni vogliono diventare carbon neutral entro il 2030 o il 2050, non devono preoccuparsi solo dei combustibili fossili, ma anche dalla decomposizione delle sostanze biologiche come fonte di emissioni. Hanno un peso importante».
Senza dati di questo tipo, ci sarebbe un “buco” in ciò che sappiamo sul cambiamento climatico.
«Monitoriamo il livello del mare in giro per il mondo. Sappiamo precisamente dove sale di più, e dove meno, come conseguenza del riscaldamento degli oceani. L’acqua si espande quando si scalda e questo spinge i flussi anche verso l’Antartico, dove fonde altro ghiaccio, e così si alzano gli oceani. Come scienziati, dobbiamo riuscire a raggiungere il grande pubblico, renderlo consapevole nel modo più tangibile possibile della sua impronta sull’ambiente. È molto più dei dati, è come li comunichiamo. Ho dei bambini: è davanti a loro che dovremo testimoniare cosa ha fatto la nostra generazione per il pianeta. Vista l’enormità di ciò che dovranno affrontare, speriamo siano meglio equipaggiati e informati di noi».
È un po’ un paradosso, ma per salvare la Terra dobbiamo andare nello spazio.
«È un classico: gli astronauti sulla Luna realizzano quant’è fragile il nostro piccolo pianeta blu. Ne parlano tutti gli astronauti. L’overview effect (in italiano «effetto della veduta d’insieme»), la prospettiva che se ne ha da fuori, ti dà un punto di vista speciale per capirlo. I satelliti aprono quella dimensione a tutti. Poche tecnologie hanno il potenziale democratico di fornire dati a tutti, con la stessa qualità e le stesse possibilità. La visione globale dei satelliti aiuta a democratizzare lo spazio. È fondamentale per noi, che spendiamo fondi pubblici. La nostra ricerca deve essere accessibile a tutti».
Quali sono i prossimi passi?
«I nostri programmi sono allineati al Green deal europeo. Stiamo lavorando a un sistema per migliorare il monitoraggio dell’anidride carbonica. Stiamo sviluppando anche uno strumento per misurare quanto siano efficaci le politiche per tagliare le emissioni. Potrà essere usato a livello globale e, ovviamente, nell’Unione europea. Pianifichiamo di realizzare un sistema laser, basato sui satelliti di Aeolus, per rendere più affidabili le previsioni del tempo».
E in futuro?
«In generale, il futuro è il posto dove puntano le nostre ricerche e dobbiamo trovare le soluzioni tecniche e scientifiche per arrivarci. Tra le nuove missioni, da poco approvate, c’è Harmony. Per la prima volta, avremo una missione di ricerca che si svolgerà attorno a un satellite, Sentinel-1. Altri due satelliti gli voleranno attorno. Grazie a questa combinazione, avremo una specie di “stereo-visione”, potremo cioè apprezzare le variazioni sulla superficie terrestre in più dimensioni. Sarà fondamentale per registrare come gli oceani rispondano a venti, correnti e maree. È il risultato di anni e anni di ricerca. Non dobbiamo fermarci nella corsa verso la nuova generazione di satelliti Sentinel».
A proposito, manca sempre meno al Consiglio ministeriale dell’Esa, a Parigi il 22 e 23 novembre.
«Lo spazio per scopi pacifici e civili ci lega tutti. È una prospettiva molto importante per affrontare le sfide globali. Spero che ci sarà almeno unità sul ruolo dello spazio. La situazione economica e i governi cambiano, in Italia come nel Regno Unito, però tradizionalmente gli Stati non investono nel settore aerospaziale solo per la sua forza industriale, ma perché i benefici sono collettivi e hanno un impatto sulla nostra vita di tutti i giorni».