Siamo riusciti a rattoppare il buco dell’ozono: non è il caso di riaprirlo. La nuova corsa allo spazio sarà uno dei maggiori driver economici del decennio, ma deve risolvere un dilemma che le è congenito: è un’attività umana molto inquinante, ma al tempo stesso incarna una delle vie tecnologiche per monitorare e arginare la sfida epocale del cambiamento climatico. In orbita si può fare ricerca come sulla Terra non è possibile, ma il turismo spaziale è ancora lontano dalla sostenibilità e ha un alto impatto ambientale. Più di altri settori, oltre a essere “parte del problema”, lo spazio può però offrire anche soluzioni.
Un articolo scientifico pubblicato a giugno da Earth’s future ha stimato che una crescita stabile dei lanci di razzi, nei prossimi dieci anni, cancellerebbe i progressi permessi dal Protocollo di Montreal, ossia l’accordo internazionale del 1987 a cui dobbiamo la cicatrizzazione del buco nell’ozono. In particolare, si consumerebbe il 10% del gas accumulato grazie alle contromisure introdotte dal trattato.
Ci sono due avvertenze, come ha spiegato una delle ultime newsletter di Quartz. I tour operator orbitali, come Virgin Galactic, Blue Origin e ovviamente SpaceX, sono ancora lontani dalle previsioni da worst case scenario, con partenze quotidiane. Le compagnie – riconducibili a una specie di triumvirato di imprenditori visionari ma soprattutto mediatizzati, rispettivamente Richard Branson, Jeff Bezos ed Elon Musk – nel 2022 hanno realizzato in totale tre voli, e probabilmente il bilancio non cambierà molto nei prossimi mesi.
Il versante non turistico del comparto, invece, va già più veloce delle simulazioni degli scienziati. Rispetto ai 102 lanci del 2019, su cui lo studio costruiva le sue proiezioni, nel 2020 siamo saliti a 104, nonostante il trauma della pandemia, e nel 2021 siamo arrivati a 133. Quest’anno siamo a 73, un ritmo che dovrebbe permettere di chiudere il 2022 a quota 150. Ma perché questa progressione dovrebbe preoccuparci? O, meglio, quali sono le ricadute sull’ambiente?
Il problema non sono “solo” le emissioni. Chiunque abbia mai visto le immagini, così scenografiche, del decollo di un razzo si ricorderà l’enormità di fumo, fuoco e calore sprigionata durante il take-off. Il punto è dove il razzo inquina, perché il suo viaggio si arresta oppure transita direttamente nell’atmosfera superiore del nostro pianeta. E può alterare il forzante radiativo. No, non è un superpotere. In climatologia, è la misura della differenza tra l’energia che entra verso la Terra e quella che torna indietro.
Prima dell’età industriale, era più o meno in equilibrio. Oggi c’è una sproporzione: passano più radiazioni di quelle che poi escono, così l’atmosfera si scalda. I più inquinanti sono i razzi a propellente solido ipergolico: si chiamano così quando l’accensione avviene spontaneamente non appena il combustibile tocca il comburente. Una delle miscele più usate combina idrazina e tetrossido di diazoto, ed è tossica, ma è ancora più deleterio il kerosene, che alimenta sia il Falcon9 di SpaceX sia le Soyuz russe, uno dei simboli della storia dell’esplorazione spaziale.
I gas di scarico delle navicelle producono particelle di carbonio elementare. Il particolato contribuisce a intrappolare il calore nell’atmosfera. I razzi lo rilasciano proprio quassù e fanno 500 volte più danni di aerei o degli impianti petrolchimici, che stanno più in basso. Allungare la vita al materiale sospeso, paradossalmente, potrebbe peggiorare la situazione. Quando concludono il loro servizio, satelliti e simili diventano spazzatura.
Questi detriti sono destinati ad aumentare: gli oggetti in orbita sono passati dai 18mila del 2016 ai 31mila contati a maggio dall’Esa. In futuro potranno tornare a Terra, come le navicelle, equipaggiate con scudi che producono polvere di carbonio. Proprio perché siamo ancora lontani dalla fase apicale, c’è tempo per studiare e adottare correttivi. Ma si può fare solo sulla base di protocolli globali condivisi, come ha detto a questo giornale l’astrofisica Simonetta Di Pippo.
Come per le scoperte scientifiche, le operazioni hanno ricadute sulla superficie del pianeta. Ambientali, in questo caso. Nel 2010, negli Stati Uniti che restano il benchmark, nella Space Economy il governo ballava da solo, forniva il 90% dei fondi. Poi sono arrivati i privati, che oggi coprono il 32% degli investimenti in ricerca e sviluppo. L’iniezione di capitali ha reso di nuovo attraente un comparto ignorato per mezzo secolo, più o meno dall’età aurea del programma Apollo.
Così numerosi Stati hanno cercato di inserirsi nella nuova corsa allo spazio. Georgia, Maine e Michigan hanno attivato studi di fattibilità per costruire degli spazioporti che facciano concorrenza a quelli storici, in California e Florida. Un articolo del Pew Charitable Trust solleva dubbi su queste ambizioni. È vero che i costi d’impresa sono calati, così come le dimensioni dei vettori, ma non si può correre il rischio che l’avventurismo spaziale produca cattedrali nel deserto, o cantieri destinati a diventare obsoleti prima di essere completati.
L’attività del sito di SpaceX Starbase, a Boca Chica in Texas, non è stata indolore per il circondario. Avrebbe causato un declino di una specie di uccello, italianizzata in «corriere canoro», che era già a rischio, secondo documenti dello U.S. Fish and Wildlife Service. Insomma, dobbiamo essere sicuri che ne valga la pena. Per questo molte delle critiche si concentrano sulle passeggiate di multimiliardari annoiati che hanno il pregio di finanziare parzialmente il lato eminentemente scientifico del comparto.
Però abbiamo ancora bisogno dello spazio per salvare la Terra dal disastro ecologico, non sono suggestioni da romanzo. Incrociando i dati misurati sul campo con le osservazioni dei satelliti, per esempio, i ricercatori dell’Esa hanno messo a punto la più raffinata simulazione del nostro pianeta, su cui calibrare le contromisure al cambiamento climatico. Oppure, per la prima volta sono state individuate dall’orbita alcune fuoriuscite di metano in mare. Il Mit di Boston sta studiando un sistema di bolle di pellicola da posizionare nell’atmosfera, al punto di Lagrange L1, dove si esaurisce la gravità. Una costellazione per schermare le radiazioni solari in un’area estesa quanto il Brasile. Di nuovo, non è fantascienza. Ne ha parlato il World economic forum.