Sfida allo zarCome un finanziere americano ha smascherato gli affari di Putin e dei suoi oligarchi

La storia di Bill Bowder, il principale promotore del Magnitsky Act, la legge firmata da Barack Obama che sanziona la corruzione e la violazione dei diritti umani nel mondo

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Sapere Vladimir bloccato in condizioni critiche in un ospedale russo fu un duro colpo. Mi sembrava di essere tornato al periodo dell’arresto di Sergej: un’altra persona a cui tenevo era in pericolo di vita a migliaia di chilometri di distanza, e io mi sentivo impotente. Anche Kyle Parker provava la mia stessa frustrazione. Oltre ad aver lavorato insieme al Magnitsky Act, le loro famiglie erano molto vicine: organizzavano barbecue nei rispettivi giardini, i loro figli giocavano insieme e le mogli erano amiche. Appena ricevetti la cartella clinica di Vladimir, la girai a Kyle.

Dovevamo diventare esperti tossicologi, e in fretta. Sapevamo entrambi della famigerata fabbrica di veleni del Kgb, che da decenni elaborava metodi nuovi, crudeli e misteriosi per eliminare i nemici della Russia. Prima di essere usati, i veleni che sviluppavano venivano spesso testati sui prigionieri nei gulag. Fra i preferiti c’erano il ricino, le diossine, il tallio, l’acido cianidrico, il polonio (che era stato usato a Londra per uccidere Aleksandr Litvinenko) e persino veleni rari estratti dalle meduse. Dovevamo capire quale fosse stato usato su Vladimir.

Kyle e io contattammo chiunque pensavamo che potesse darci una mano. In America, Kyle inviò la cartella clinica di Vladimir a un noto tossicologo dei National Institutes of Health, a un agente dell’intelligence specializzato in guerra biologica, a un disertore kazaco che era stato coinvolto nel programma veleni dell’Unione Sovietica, e a sua sorella, una delle migliori oncologhe del Memorial Sloan-Kettering Hospital di New York.
Dalla nostra parte dell’Atlantico, io e il mio team identificammo tutti gli esperti di veleni nel Regno Unito. Contattammo Porton Down, rinomata struttura di ricerca medica gestita dall’esercito, il Servizio nazionale di informazione sui veleni, un patologo forense dell’Home Office, il reparto di tossicologia del Guy’s Hospital e un ex detective della Omicidi della Metropolitan Police di Londra. Kyle ebbe risposta da alcuni dei suoi contatti entro poche ore. Il primo riscontro arrivò dalla sua fonte nell’intelligence, che sospettava l’impiego concomitante di ben due veleni, uno dei quali
progettato per creare la parvenza di una grave intossicazione alimentare. Mentre i medici erano impegnati a curare i sintomi dell’intossicazione, l’altro veleno portava a termine il lavoro vero: far collassare gli organi vitali di Vladimir.

La fonte di Kyle aveva già visto i russi ricorrere alla stessa tattica in passato. Dal punto di vista dell’assassino, era un’operazione semplice e pulita, con una intrinseca possibilità di negare l’evidenza. I medici, sempre che non fossero complici del misfatto, potevano dire in tutta onestà: «Non
siamo riusciti a individuare il problema. Abbiamo fatto il possibile, ma purtroppo il paziente è morto». La seconda risposta giunse dal contatto di Kyle ai National Institutes of Health. La sua analisi era meno dettagliata, ma, basandosi sulla conta dei globuli bianchi di Vladimir, escludeva con
certezza un agente radiologico.

Era un’informazione utile. Alla luce del caso di Aleksandr Litvinenko, la prima cosa a cui Kyle e io avevamo pensato era l’avvelenamento da radiazioni. Ma iniziavamo a capire che identificare un veleno era come cercare un ago in un pagliaio. Per scoprire di cosa si trattasse, dovevamo procedere per esclusione. Le nostre richieste di aiuto in Gran Bretagna non riscossero lo stesso successo: a quanto pareva, nessuno controllava l’email nel fine settimana. L’unico a darci un riscontro fu l’ex detective della Omicidi. Invece di proporci la sua teoria sul veleno usato contro
Vladimir, ci fornì una serie di istruzioni raccapriccianti per preservare la «scena del crimine» – ovvero il corpo di Vladimir – in caso di morte, fra cui la «mungitura» del sangue dall’arteria femorale, la rimozione di una sezione del fegato e la raccolta di un campione di umor acqueo dal bulbo oculare.

A leggere quei dettagli mi si rivoltò lo stomaco. Vladimir era mio amico. Non volevo pensare ai suoi bulbi oculari o a pezzi di fegato. Volevo vederlo di nuovo parlare e camminare. Poi si fece viva la sorella di Kyle. «Kyle, detesto dovertelo dire, ma non credo che ce la farà» scrisse. Nel suo lavoro era abituata a perdere i pazienti. «Dovresti suggerire alla famiglia di prepararsi a dirgli addio.» Né Kyle né io avevamo intenzione di dire niente di simile a Evgenija. Era seduta al capezzale del marito e conosceva le sue condizioni meglio di noi. Scoprire con cosa era stato avvelenato stava
diventando sempre più urgente. Almeno avevamo i campioni da far analizzare in Occidente.

Chiamai l’ambasciata britannica a Mosca la mattina di sabato 30 maggio. Mi passarono un funzionario consolare diverso da quello con cui avevo parlato l’altra volta. «Abbiamo i campioni di Vladimir» gli dissi. «Deve portarveli sua moglie o potete andare a prenderli?» «Mi dispiace tanto, signore» rispose l’uomo. «Non l’hanno ancora contattata a questo riguardo?» «No.» «Non possiamo più occuparcene qui in ambasciata. La questione è stata trasmessa al Global Response Center di Whitehall. La contatteranno a breve.» Il Global Response Center è una divisione
del Foreign Office che si occupa dell’assistenza ai cittadini britannici in difficoltà all’estero.

Ero rincuorato di sapere che il governo stava prendendo la cosa sul serio. Poco dopo, in effetti, mi arrivò un’email. Peccato che fosse del tutto inutile. Non c’era nessun riferimento a una valigia diplomatica. Si limitavano a comunicarci i numeri di telefono degli uffici di Mosca di Dhl, FedEx e altre società di spedizioni, esprimendoci un tiepido sostegno morale. Dhl e FedEx? Mi prendevano in giro? Bastava cercare su internet per ottenere le stesse informazioni.

Chiamai l’addetto del Global Response Center, il cui numero era riportato in calce all’email. «Sono confuso» gli dissi. «Mi avevate assicurato che ci avreste aiutato a trasportare i campioni.» «Temo che non possiamo, signore.» «Ma l’ambasciata di Mosca aveva garantito che avremmo potu-
to usare la valigia diplomatica.» «Mi dispiace, ma non ci è possibile fornire quel genere di assistenza.» Gli spiegai che Vladimir, un cittadino britannico, rischiava di morire, ma l’uomo rimase sulla sua posizione. Dopo quella telefonata, mi ci vollero diversi minuti per calmarmi. Ciascuno di noi è portato a credere che, da cittadino di paesi potenti come gli Stati Uniti o la Gran Bretagna, se dovesse succedergli qualcosa di brutto all’estero, il suo governo farebbe di tutto per proteggerlo.

Ma in questo caso non stava succedendo. Era un ostacolo ai nostri piani. Nelle ultime ventiquattro ore ci eravamo concentrati sui veleni e sulle diagnosi, non sulla logistica. Dato che ci ritrovavamo a partire da zero, chiamai la Dhl, soltanto per scoprire che non spedivano campioni biomedici da Mosca. FedEx li accettava, ma disse che ci sarebbero volute almeno settantadue ore e che avremmo dovuto chiedere una licenza di esportazione al governo russo. Certo, come no. Uno dei motivi principali per cui volevamo utilizzare la valigia diplomatica era proprio evitare di coinvolgere il governo russo. Senza contare che, se Vladimir fosse morto, quei campioni potevano essere l’unica prova del suo omicidio e la valigia diplomatica avrebbe garantito la catena di custodia. Farli spedire da FedEx l’avrebbe inevitabilmente spezzata. L’unica cosa che mi veniva in mente era parlare con qualcuno più in alto. Scrissi un’email e la inviai al segretario di Stato per gli Affari esteri britannico, l’onorevole Philip Hammond, un uomo che non avevo mai incontrato in vita mia.

Trattandosi di un politico di alto rango, non mi aspettavo una risposta, invece a sorpresa ricevetti una sua email personale il giorno dopo, di domenica. Mi scrisse che aveva seguito il caso con attenzione e voleva aiutarci, ma quanto alla valigia diplomatica aveva le mani legate. Citò la Convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche, spiegando che ne proibiva l’uso se non per le comunicazioni ufficiali. Per dimostrare il suo interessamento, tuttavia, si offriva di far scortare il nostro corriere all’aeroporto da un funzionario dell’ambasciata e di accompagnarlo fino ai controlli di frontiera. Purtroppo era il massimo che poteva fare. Ero deluso. I russi se ne fregavano della Convenzione di Vienna. Usavano le loro valigie diplomatiche per spostare droghe, veleni e denaro in tutto il mondo.

Perché gli inglesi non potevano fare uno strappo alla regola per salvare un loro cittadino? (In seguito capii che non potevo avere entrambe le cose. Era quello per cui Boris, Vladimir e io avevamo lottato e per cui Sergej era morto: anche la Russia dovrebbe essere un paese in cui il ministro degli Affari esteri risponde così a una richiesta di fare uno strappo alla regola.) A quel punto decidemmo di infischiarcene della catena di custodia. Se il governo britannico non ci permetteva di usare la valigia diplomatica, avremmo usato le nostre risorse per portare i campioni a Londra. Uno degli amici di Vladimir a Mosca, venuto a conoscenza del problema, si offrì di volare nella capitale inglese con i campioni di contrabbando nel bagaglio.

Successe tutto molto in fretta. I campioni arrivarono nel nostro ufficio il giorno successivo, nel primo pomeriggio di lunedì, cinque giorni dopo il ricovero di Vladimir. Finirono dritti in frigorifero, accanto al cibo da asporto avanzato dalla pausa pranzo. Ora dovevo soltanto trovare una struttura disposta a eseguire i test. Contattai per primo Porton Down, il centro di ricerca medica dell’esercito, ma la persona che mi rispose non mi lasciò nemmeno finire di spiegare la situazione: «Signore, accettiamo incarichi solo dal governo». «Ma è urgente» supplicai. «Non potete fare un’eccezione?». «Mi dispiace, non possiamo operare senza l’autorizzazione del governo.»

Allora chiamai il Servizio nazionale di informazione sui veleni, un’altra agenzia governativa, ma mi risposero che serviva un’autorizzazione delle forze dell’ordine. Anche se fossimo riusciti a ottenerla, ci sarebbero voluti giorni, se non addirittura settimane. Feci ancora una decina di chiamate che si rivelarono altrettanti buchi nell’acqua. Poi, a fine giornata, mi indirizzarono a un medico privato che aveva tra i suoi pazienti gestori di hedge fund, banchieri di investimento e altri ricchi londinesi. Non costava poco, ma ero pronto a sborsare qualsiasi cifra. Il medico in questione si appoggiava a un laboratorio privato in Harley Street, una zona del centro di Londra con un’elevata concentrazione di medici e specialisti di alto livello. Mi assicurò che avevano i contatti necessari per far testare i campioni in qualsiasi laboratorio del governo del Regno Unito. Disse che ci sarebbe voluto un giorno, due al massimo, ma che avremmo avuto delle risposte a breve.

Quando chiamai Evgenija per informarla che i campioni erano a Londra e stavano per essere analizzati, mi interruppe per darmi una notizia del tutto inaspettata: «Bill, i reni di Vladimir hanno ripreso a funzionare!». «Davvero? È fantastico!» «Sì, il dottor Protsenko ha deciso di svegliarlo dal coma farmacologico domani.»

Dal brusco inizio di Evgenija con l’ospedale Pirogov le cose erano migliorate. E soprattutto, pareva che il dottor Protsenko stesse davvero cercando di salvare la vita di Vladimir. Mentre il medico e i suoi assistenti si preparavano per la procedura, Evgenija si scoprì terrorizzata da ciò che sarebbe potuto succedere al risveglio di Vladimir. Sarebbe rimasto paralizzato? Avrebbe reagito al suono della sua voce? Avrebbe ripreso conoscenza? Non voleva nemmeno pensare a come sarebbe stata la loro vita se le facoltà mentali di Vladimir fossero risultate seriamente
compromesse.

Sfida allo zar, Bill Browder, Chiarelettere, 360 pagine, 19,80 euro