In attesa di conoscere quali effetti produrrà la guerra ucraina in Europa e dintorni, possono esserci pochi dubbi sul fatto che nel breve periodo il leader riuscito più di altri ad avvantaggiarsene è stato il presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Abile nel distinguersi all’interno della Nato per la non adesione alle sanzioni alla Russia, Erdogan si è guadagnato un accesso privilegiato al Cremlino per poi diventare fra i maggiori alleati di Kiev, fornendo droni armati che i russi non riescono a intercettare e chiudendo acque e cieli nazionali all’esercito di Mosca. L’abilità di Erdogan è di saper giocare su più tavoli con straordinaria efficacia: da un lato aprendo le porte a Svezia e Finlandia nella Nato, dall’altro incontrando Putin in più occasioni – da Teheran a Soci – per testimoniare il non isolamento internazionale della Russia.
Ciò che accomuna tali e tante mosse, apparentemente in contraddizione, è il filo rosso dell’interesse nazionale turco. Erdogan è convinto che il conflitto fra Mosca e Kiev porterà a una frattura fra Est e Ovest destinata a durare nel tempo, in Europa come nel Mediterraneo, offrendo così spazio ad Ankara per estendere e consolidare una propria sfera di influenza lì dove, fino al termine della Prima guerra mondiale, si estendeva l’impero ottomano.
A tenere assieme i tasselli del mosaico di Erdogan sono dunque decisioni che assegnano alla Turchia il ruolo di interlocutore indispensabile di ogni parte in conflitto, permettendo ad Ankara di rafforzarsi ovunque, dal Bosforo a Gibilterra, dal Nordafrica allo Stretto di Babel-Mandeb, con gli interlocutori più disparati. Più gli attori rivali sono in attrito, più entrambi hanno bisogno di lui, per il semplice motivo che la Turchia è fisicamente presente nello scacchiere conteso ed è in grado di sfruttare, con grande disinvoltura, la propria geografia a favore di tutti i contendenti. È un risiko comprensibile solo tenendo presenti gli interessi turchi e l’idea strategica che Erdogan persegue con ferrea determinazione: tornare a essere potenza egemone nel Mediterraneo ripetendo la formula dei Sultani ottomani, che si imponevano con potenza efferata, trattavano con tutti ma esitavano a intervenire nelle dispute locali fino a quando non erano minacciati direttamente.
Se il legame con la Nato e gli Stati Uniti è indispensabile a una Turchia con un’economia in affanno, afflitto da un’inflazione molto alta e interessato a essere l’unico Paese musulmano parte dell’Alleanza occidentale, è invece la dipendenza dalle importazioni di energia dalla Russia l’architrave del legame con il Cremlino. Ma tenere a galla un sistema produttivo in difficoltà, segnato da forti squilibri di ricchezza sul territorio e un aumento demografico senza freni, non è l’unica priorità di Erdogan: il presidente turco persegue anche un’idea neoimperiale sui «territori» nordafricani e mediorientali già ottomani da riconquistare e mantenere.
L’intento di fondo è estendere le aree – terrestri o marittime – sotto il controllo, diretto o meno, delle proprie forze armate: gli accordi con la Russia in Siria e Libia consentono di controllare la regione a Nord di Idlib e attorno a Tripoli, così come il legame con il Qatar costituisce la testa di ponte per le operazioni nel Golfo Persico, mentre la presenza di armi nucleari Usa nella base di Incirlik assicura una formidabile autorità in tutta l’instabile regione.
Da qui anche l’impegno nel negoziato sull’export del grano dall’Ucraina, perché la mediazione diretta fra Putin e Zelensky – con il relativo successo delle consegne in Nordafrica, Medio Oriente e Italia – trasforma la Turchia nel protagonista indiscusso del superamento di una crisi alimentare che vedeva più Paesi, dal Libano all’Egitto, rischiare il collasso.
I tavoli negoziali aperti dal «Raìs» di Ankara sono quindi molteplici: dalla richiesta a Helsinki e Stoccolma di espellere gli oppositori curdi in cambio del definitivo avallo al loro ingresso alla Nato, al braccio di ferro con Mosca e Teheran per estendere il territorio curdo siriano sotto il controllo turco, fino alla consegna di armi hi-tech americane in cambio del sostegno a Kiev, e alle forniture energetiche russe in cambio della non adesione alle sanzioni occidentali.
A Washington e Mosca c’è chi ritiene che Erdogan stia rischiando più di un corto circuito, ma il presidente turco guarda tutti dall’alto in basso, nella convinzione che chiunque voglia essere attivo nel Mediterraneo debba, per avere successo, stringere accordi con lui, riconoscendo alla Turchia il ruolo di leader regionale a cui Ankara ambisce. Anche il ritorno dei terroristi jihadisti, che hanno spostato le loro roccaforti nel Sahel e nel Corno d’Africa, in realtà è una carta a suo favore, perché nessuno come Erdogan – che ha prima flirtato con e poi combattuto contro l’Isis – conosce la dinamica interna ai gruppi islamici. Nulla da sorprendersi, dunque, se il Qatar tenti di far leva su Ankara per spingere il regime talebano in Afghanistan ad attivare un canale di comunicazione con il resto del mondo.
Il ritorno degli imperi, Maurizio Molinari, 256 pagine, 20 euro