Nel percorso di Vitaliano Trevisan, uno dei più grandi autori non «della sua generazione» (come scrive il suo editore in copertina), ma, all’opposto, della letteratura italiana non generazionale degli ultimi quarant’anni, il libro postumo, Black Tulips (Stile Libero- Einaudi), si colloca cronologicamente indietro rispetto alla sua produzione più recente, soprattutto a Works, l’ultimo romanzo (autofiction?), a cui lo stesso autore fa riferimento quando fissa nel tempo l’esperienza che ci sta per raccontare. Un tentativo di spaccio di pezzi di auto usate in Africa, quando lavorava (in Italia) come portiere di notte in albergo, vent’anni prima: questa la trama, recuperata dal taccuino della sola memoria perché, nell’esperienza vissuta, l’auctor dice di non aver portato nulla con sé, volendo affidare tutto alla percezione sensoriale.
Il tempo è decisivo in questa vicenda, anche sul piano extradiegetico, perché Trevisan narratore continuamente, nel testo, interrompe il racconto, dilaziona e differisce, rimandando a un’altra pagina, un altro momento della storia (come nel caso della statuina dello zio che per la prima volta “porta da lui la Nigeria”), oppure (e questo ahinoi non si darà) a un altro libro, di là da venire, chissà quando (chi legge lo sa, a differenza di chi scrive, o forse esattamente come lui: mai più). Faccio come il narratore di Black tulips: ci tornerò.
Cominciamo dall’elemento intradiegetico, la dislocazione spaziale, resa plastica dalla domanda sbilenca che il narratore si lascia sfuggire di fronte alla dilatazione dei tempi e alla restrizione di indipendenza che avverte da subito: «Che cazzo ci sono venuto in Nigeria a fare?». D’altra parte il tema del libro era stato anticipato in più occasioni dallo stesso autore e indicato con formulazione tutt’altro che accattivante: “la prostituzione delle nigeriane”, l’infimo gradino, a quanto ci dice, nell’offerta in strada dei corpi di donne.
Parlo, qui, volutamente di libro e non uso il termine romanzo (o, di nuovo, autofiction – “da una storia vera”), che funge da moltiplicatore esponenziale di vendita, almeno nelle aspettative editoriali. Lo dice l’autore stesso, d’altra parte, che qui si tratta di una testimonianza di vita (e purtroppo soprattutto di non più vita): di sicuro non è un libro per tutti, anzi, non deve essere letto da tutti. Perché si presta a mille equivoci interpretativi (ad esempio rispetto all’ideologia dell’autore) che solo una conoscenza approfondita e purtroppo interrotta può scongiurare, e perché, soprattutto, l’autore rivisita e personalizza l’estetica del frammento e dei frantumi per la quale non siamo assolutamente pronti, come lettori, in Italia.
Abbiamo amato Ernaux, e ora di più la amiamo, legittimati dal Nobel, perché i suoi paragrafi inframezzati dalla riga bianca li lega una trama riconoscibile all’interno di coordinate ormai convenzionali, e anche laddove tale trama tratti di temi scabrosi, siamo sempre nei limiti dell’accettabilità (e dicibilità) borghese, familiare ai lettori (alle lettrici, soprattutto).
L’auctor Trevisan, maschio cisgender, dichiaratamente ostile al pensiero della differenza, ma allo stesso tempo creaturale francescanamente, empatico verso gli ultimi per impulso rovinoso e incontenibile, mette le mani dentro le questioni più drammatiche che riguardano la vita dei singoli e le società da perlomeno secoli: il movimento dei popoli per disperazione e costrizione, la sopraffazione e il dominio coloniale dell’Occidente predatore, dunque la tratta dei neri (delle nere, soprattutto), che esiste dal Cinquecento e non è mai scomparsa, la prostituzione, appunto, e l’essere diversi, o dicotomici (uomini e donne, generi e sessi, etnie e razze, neri o bianchi), in un mondo ricompattato (o rappezzato) da una serie di parametri come il successo e la ricchezza.
Anche in Nigeria, in mezzo alla più fonda sporcizia, anomia e miseria, i privilegiati hanno il box doccia in bagno e l’aria condizionata in camera. Ma il rovescio della prospettiva orientalista è subito espresso e ribadito a più riprese: l’oyio, il bianco, lo strano, il fantasma, è lui, l’autore. E lo è prima di tutto perché lo era già: color bianco spettro e “strano” (i truccatori dei film in cui ha recitato: «ti opacizziamo»).
Trevisan è stato l’unico scrittore italiano degli ultimi 40-50 anni (direi dopo Pasolini) a non sventolare il vessillo dell’accoglienza e dell’integrazione a riprova di una civiltà e di una bontà elettive e, viceversa, a spostare drasticamente l’ottica spostandosi fisicamente lui, in un mondo che non è il nostro, senza rete e senza protezione. Non accompagnato da nessuno, non al servizio di una tivù o di un giornale, come amico (così si definisce) di alcune ragazze nigeriane conosciute nel quadrilatero del degrado, a Vicenza, sua città natale (in realtà un paese, Cavazzale, diventato periferia con l’abusivismo).
Fatichiamo a riconoscere in Trevisan uno scrittore (il migliore, senza partita e rivali, in questo millennio), perché non apparecchia nessuna storia di quelle che ci siamo abituati a leggere nei romanzi correnti: nessuna redenzione, consolazione, ricomposizione, conciliazione, uscita verso la luce (catabasi, se mai, nella discesa delle ragazze letteralmente deportate). Nessuna delle idées reçues sul mondo dei diversi, degli ultimi, degli sfortunati e dei criminali: impossibile col nostro, miracolo che ne sia tornato vivo (almeno da lì). Ma è anche l’autore che esibisce la sua conclamata sociopatia nei contesti abituali per gli scrittori nostrani (i premi, le occasioni mondane), che rivendica la sua diversità dalla sinistra benpensante e garantita.
La parola che viene sempre in mente leggendo Black tulips è pericolo: perché le strade sono buie, perché gli sconosciuti sono infidi, perché gli agenti a tutela dell’ordine manganellano alla cieca, ma nemmeno di quelli che hai sempre accanto puoi veramente fidarti. La tua stessa percezione non è salda. L’inconciliabilità è la vera forza che anima il dramma, cioè la vita: le contraddizioni, quello che non puoi accomodare in un ordito predisposto dalla sartoria romanzetto e devi per forza eiettare in frammenti, con tanto di note (note su note, a ogni pagina, con la funzione di esaltare la visione obliqua: «le note sono scorci», il modo di vedere le cose da un’altra prospettiva, non frontale).
Quello che fa, in questo libro, Trevisan, è coerente con il suo percorso, ma anche profondamente nuovo: la sua lingua si accorcia, viene da dire, non singulta più alla Beckett (modello convocato anche qui, sorprendentemente nella parte finale, che piega verso una visione quasi elegiaca della condizione schiavile delle donne di strada – anzi, delle donne che sotto la strada, da un pertugio, ricostruiscono vite e storie dei passanti attraverso frammenti di visione – from the shoes, allegoricamente).
Una lingua che si allenta e si contrae, si rastrema, si nega, si autocancella proprio nell’atto di raddoppiarsi (nella traduzione dal pidgin, e nella sua perfetta padronanza): ne rimane una specie di scheletro, snodi di trama lasciati andare a mo’ di appunti, in loose writing, scrittura a perdere. E più toglie più parla, questa lingua: dell’impotenza di fronte al dolore, dell’inadeguatezza degli strumenti umani, della sofferenza, delle differenze, delle disuguaglianze, della precarietà, della sofferenza («nel dubbio, ripeto due»), dell’insofferenza di fronte alla normalità dei comportamenti socialmente passabili o peggio obbligatori (non siamo «normali», siamo «normati», nella nostra adesione al circuito produttivo e riproduttivo), della malattia (lucidità? eccesso di profondità) mentale, della fatalità, del proposito o del desiderio di morire, del disagio di tutti e di ciascuno in un modo suo proprio.
È un libro che fa vergognare il lettore (o almeno, dovrebbe) di non essere all’altezza del compito, agli occhi di uno che ci vedeva così scorciato, e acuminato. Scusa, Vitaliano, e grazie, di questa ennesima sberla.
Ogni suo libro lo è, ma questa volta la lacerazione è immedicabile.