Giorgia Meloni ha deciso di effettuare la sua prima missione internazionale a Bruxelles per incontrare i vertici delle istituzioni europee: la presidente del Parlamento europeo Roberta Metsòla, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen e il presidente del Consiglio europeo Charles Michel facendo precedere gli incontri formali da un’anteprima informale con il commissario Paolo Gentiloni.
Altri primi ministri italiani avevano preferito altre mete come Matteo Renzi che effettuò la sua prima missione da capo del governo in Tunisia ma evidentemente Giorgia Meloni ha voluto affrontare subito il confronto con l’Unione europea per chiarire che il rapporto con l’Europa – considerata dalla destra sovranista “matrigna” – è in testa alle priorità del suo governo.
La scelta di Bruxelles è stata rilevante perché sul tavolo delle questioni di politica estera ci sono dossier che condizioneranno le scelte dell’Italia nei prossimi mesi non certo perché Giorgia Meloni sia “vigilata” dalla Commissione europea e tanto meno dal Consiglio europeo di cui è uno dei ventisette “soci” ma perché le decisioni o le non-decisioni europee avranno una grande influenza sull’attuazione del programma del governo italiano.
La stampa italiana ha presentato la visita di Giorgia Meloni come un successo di immagine e in effetti “il” Presidente del Consiglio gode in Europa del vantaggio di un risultato elettorale incontestabilmente positivo e del fatto che la sua leadership nella coalizione si è rafforzata anche per l’inconsistenza e il carattere erratico dei suoi alleati Matteo Salvini e Silvio Berlusconi.
Il fair-play diplomatico e il funzionamento delle istituzioni europee avevano inoltre come inevitabile conseguenza il fatto che i tre leader europei l’avrebbero accolta come un(a) interlocutore(rice) con accountability e con l’autorevolezza legata all’appartenenza a uno dei paesi fondatori e a uno dei sette membri del G7.
Avendo fatto questa doverosa premessa e lasciando per ora da parte la visione sovranista del governo e di Fratelli d’Italia insieme alle suggestioni che legano una parte importante della base del partito all’estremismo di destra e alla nostalgia verso il “ventennio”, vediamo insieme i dossier che ha portato con sé a Bruxelles Giorgia Meloni e su cui non ci si poteva certo attendere che tornasse a Palazzo Chigi con risultati immediatamente concreti e operativi:
- La politica energetica nel quadro della drammatica situazione creata dall’aggressione del 24 febbraio di Vladimir Putin all’Ucraina. Mario Draghi insieme ad altri quattordici governi aveva chiesto una serie di decisioni comuni che avrebbero potuto essere immediatamente adottate dal Consiglio su proposta della Commissione europea dato che i “quindici” costituivano una maggioranza qualificata ai sensi del trattato. Ursula von der Leyen non aveva voluto premere sull’acceleratore del suo diritto di iniziativa e il Consiglio europeo aveva raggiunto il 21 ottobre un risultato che, a seconda dei punti di vista, poteva essere considerato un bicchiere o mezzo pieno o mezzo vuoto da riempire o svuotare sulla base delle proposte legislative della Commissione e delle decisioni dei ministri dell’energia seguite eventualmente da un secondo tour de table dei capi di Stato o di governo a metà dicembre. Con Giorgia Meloni Ursula von der Leyen non poteva andare al là delle conclusioni del Consiglio europeo e non poteva dunque promettere un price cap più consistente e duraturo di quello su cui il Consiglio europeo aveva raggiunto un faticoso compromesso. Piuttosto che rivendicare il potere più che il diritto di “fare da soli” Giorgia Meloni avrebbe potuto e dovuto rivendicare il rispetto del Trattato da parte dei governi e della Commissione europea e ricordare a Ursula von der Leyen il metodo adottato dall’Unione europea per uscire dall’emergenza della pandemia fondato sui principi della solidarietà e della cooperazione leale.
- La creazione di nuovi strumenti finanziari a sostegno dei paesi membri. Non sappiamo se nel colloquio informale fra Giorgia Meloni e Paolo Gentiloni si sia parlato della proposta che il commissario all’economia ha lanciato il 3 ottobre insieme al commissario all’industria Thierry Breton per “stabilire collettivamente – come durante la crisi del Covid – meccanismi di sostegno equi che mantengano l’unità del mercato interno, proteggano tutte le imprese e i cittadini europei”. Si tratta di creare nuovo debito pubblico europeo o se volete energy-bonds sotto forma di titoli europei per finanziare questi meccanismi e consentire l’allocazione delle risorse raccolte sul mercato finanziare in tutta l’Unione al fine di evitare misure nazionali che provochino distorsioni nel mercato interno e violazioni delle norme sugli aiuti di Stato come quelle decise dalla Germania ma non solo. Da un certo di punto di vista si tratterebbe di una misura di carattere “federale” che non sostituirebbe o modificherebbe il Next Generation EU ma si affiancherebbe ad esso e si collocherebbe in una linea di continuità con esso. In vista del Consiglio europeo di metà dicembre rappresenterebbe un atto politico capace di coniugare interessi europei e interessi italiani un ordine del giorno di Camera e Senato che dia mandato al governo italiano di sostenere la proposta Gentiloni-Breton sapendo che essa ha creato divisioni all’interno della Commissione europea e ha suscitato immediate reazioni negative nei cosiddetti paesi frugali ma anche soprattutto in Germanie e nei Paesi Bassi.
- Il carattere perenne del Next Generation EU e l’autonomia fiscale dell’Unione europea. La questione di nuovi strumenti finanziari apre la questione del carattere perenne del NGEU e della autonomia fiscale dell’Unione europea che consentirebbe in primo luogo di rimborsare con risorse europee e non nazionali il debito pubblico creato per finanziare i 750 miliardi di questo piano creato nel 2020 e poi di dotare il bilancio europeo di vere risorse proprie che siano operative alla scadenza dell’attuale quadro finanziario pluriennale nel 2027. La creazione di vere risorse proprie e cioè di imposte europee che non aumentino il carico fiscale complessivo sui cittadini europei ma lo distribuiscano più equamente tassando “mali comuni” (l’elusione e l’evasione fiscale, l’armonizzazione delle imposte sulle società, i prodotti ad alto contenuto di carbonio, i profitti sproporzionati del web, i guadagni dai giochi d’azzardo, le transazioni finanziarie, le tasse sulle società che vendono tabacco e prodotti alcoolici..) per garantite “beni comuni” richiederebbe due innovazioni istituzionali di tipo federale: la codecisione del Parlamento europeo (no taxation without represention) e il voto a maggioranza qualificata nel Consiglio che sono all’opposto della logica confederale e che hanno non a caso suscitato nel Parlamento europeo le reticenze o le opposizioni dei gruppi dei Conservatori e Riformisti (ECR) dove siede Fratelli d’Italia e Identità e Democrazia (ID) dove siede la Lega. Giorgia Meloni ha chiesto più risorse per l’Italia a Ursula von der Leyen e siamo convinti che non ha usato la grottesca minaccia di Matteo Salvini e prima di lui di Matteo Renzi di interrompere i contributi italiani al bilancio europeo. La richiesta di più risorse per l’Italia non può tuttavia essere slegata dal tema della autonomia fiscale dell’Unione europea. Cone si dice in francese: non si può avere le beurre et l’argent du beurre.
- Last but not least, la questione delle politiche migratorie e dell’accoglienza di chi risiede l’asilo in territorio europeo e in particolare nei cosiddetti paesi di prima accoglienza. Come sappiamo l’Italia è al quinto posto nell’Unione europea per domande di asilo dopo la Germania, la Spagna, la Francia e la Grecia in dati assoluti ma è addirittura all’ottavo posto in percentuale ogni mille abitanti. Sull’accoglienza dei richiedenti asilo le posizioni del governo italiano e dell’Unione europea sono distanti anche se non tutte le ragioni stanno dalla parte di Bruxelles ed il torto da parte di Roma se si considerano le conclusioni fortemente critiche sul funzionamento della Agenzia Frontex e le troppo timide e inadeguate proposte della Commissione europea sulla riforma del Regolamento di Dublino. L’Italia deve rispettare i diritti fondamentali ed in particolare il principio della non-discriminazione e del salvataggio in mare di chi rischia la vita e l’Unione europea deve adottare politiche più efficaci per la gestione dei flussi migratori anche attraverso la creazione di corridoi umanitari a partire dai paesi di provenienza (=di fuga) e strumenti europei per rafforzare le politiche di accoglienza e di inclusione applicando il metodo delle decisioni adottate a maggioranza nel Consiglio in codecisione con il Parlamento europeo. Anche in questo caso le richieste di Giorgia Meloni a Bruxelles possono essere accolte solo se il governo italiano sarà pronto a sostenere un rafforzamento delle competenze e dei poteri dell’Unione europea.
Consentiteci per concludere una osservazione di carattere generale.
Alcune delle richieste fatte da Giorgia Meloni a Bruxelles non trovano risposta, non perché “l’Europa è matrigna”, ma perché il potere di decidere o meglio di non decidere sta nelle mani di ventisette “patrigni”, che siedono nel Consiglio europeo e che difendono il principio del voto alla unanimità.
I parlamentari europei conservatori (e riformisti, ma che di riformismo hanno ben poco), a cui appartengono quelli di Fratelli d’Italia, assieme a quelli di Identità (Nazionale, che si accompagna grottescamente al sostantivo “democrazia“) a cui appartengono quelli della Lega, difendono nel Parlamento Europeo il sistema patrigno confederale in materia di immigrazione, di risorse proprie e di potere fiscale europeo, di politica dell’energia e cioè tutte quelle questioni che ha sollevato a Bruxelles Giorgia Meloni a Bruxelles e che sono bloccate a causa del sistema patrigno che la stessa Giorgia Meloni ha detto di voler rafforzare, restituendo poteri e competenze agli Stati nazionali.
La sua difesa ossessiva della “Nazione” – e cioè di quella entità fondata su un’unica etnia – va esattamente nella direzione della difesa di una radicalizzazione del sistema patrigno, come vorrebbero il nuovo governo svedese, il governo polacco, il partito nazionalista spagnolo Vox e, seppure diviso dai suoi rapporti con Putin, il governo ungherese.
Pur non difendendo l’idea di radicalizzare il sistema patrigno, gli altri governi – ivi compreso quello tedesco, ma anche quelli austriaco e olandese – restano legati all’idea dell’Europa confederale, rappresentata dal Consiglio europeo che tanto piace a Giorgia Meloni.
La differenza fra un sistema confederale ed un sistema federale è rappresentata plasticamente dal modo in cui fu affrontata la crisi del debito in Grecia e in California. Con la Grecia agì il sistema patrigno a danno della Grecia, ma anche di tutta l’Unione Europea, perché dopo anni di paralisi l’Unione fu costretta a pagare dieci volte di più di quello che avrebbe pagato se fosse subito intervenuta a sostegno del debito greco, imponendo fra l’altro ai Greci condizioni da usurai.
Se negli Stati Uniti fosse stato in vigore un sistema patrigno (=confederale), il Presidente avrebbe dovuto riunire tutti i Governatori degli Stati “confederati”, chiedendo loro di mettere mano al portafoglio per salvare la California. Poiché gli Stati Uniti sono invece una Federazione, il Presidente usò i suoi poteri federali e la California fu salvata dal default.
Sarebbe meglio non usare l’espressione sbagliata “Europa matrigna”, con un linguaggio superficialmente giornalistico che non corrisponde alla realtà di una Unione Europea i cui difetti principali risiedono nel sistema patrigno.