Lacrime, sangue e geloLa guerra per gli ucraini è il dramma del presente, il trauma del passato e quello delle nuove generazioni

Per sopravvivere al freddo causato dai russi, in tutto il paese si accendono candele e lampadine alternative, come è stato ogni volta che è stato messo in difficoltà da Mosca

AP/Lapresse

Negli ultimi due mesi l’intera Ucraina è sprofondata nel buio, a volte in un buio programmato che viene annunciato tempestivamente nella chat della regione dove vivono i miei genitori e che io seguo. A volte il buio è improvviso, causato dall’ennesimo attacco di missili russi.

Si accendono le candele, si accendono i generatori e le lampadine portatili, immagino le torce solari nell’aiuola delle rose di mia mamma, ormai coperte di neve, che si illuminano appena cala il crepuscolo.

La neve oggi copre non solo le rose, copre le strade, i balconi dei condomini nelle grandi città, gli ingressi delle case morse dalle bombe, le trincee dove stanno i difensori ucraini. Il freddo diventa reale, diventa fisico e insopportabile, diventa un’altra arma nelle mani dell’aggressore che colpisce fino alle ossa, ma allo stesso tempo tempra e fa crescere ancora più forte la resistenza.

Si spengono le lampadine elettriche e insieme alla speranza si accendono le lampadine alternative. Una volta si accendevano le lampade al cherosene. Me le ricordo bene, due lampade verdi che puzzavano e con il fumo lasciavano sul soffitto due cerchi neri da ripassare con l’intonaco l’estate successiva. Due cerchi neri come i lividi che lascia sul polso la stretta di una mano violenta.

L’accensione di quelle lampade era programmata, dalle 18 alle 20, negli anni Novanta quando l’Ucraina faceva i primi passi da paese indipendente e per sopravvivere razionava l’elettricità.
Il buio all’improvviso rendeva tutte le cose possibili. La tv era spenta, i caratteri delle pagine dei libri erano invisibili e la voce del nonno e della nonna faceva rinascere in quella stanza con le lampade sul tavolo una stufa che non c’era più, sostituita dal riscaldamento centralizzato, e anche quel posto per dormire che stava sopra la stufa e dal quale sbucavano due teste, una nera e una bionda. Quella bionda era di mio padre.

I racconti dei nonni non erano favole né storie inventate, erano le loro storie di vita, taciute per così tanto tempo alla luce del giorno e delle lampadine elettriche prodotte in Unione sovietica, e raccontate finalmente allo sfarfallio del cherosene che bruciava agli albori dell’Ucraina indipendente.

Era la storia di una giovane donna di un paesino ucraino al confine con la Moldavia, assegnata al posto vacante di insegnante di matematica in una scuola nella regione della capitale ucraina Kyjiv. Per poter studiare e per svolgere una professione nell’Unione sovietica, la giovane insegnante aveva dovuto falsificare i documenti perché era figlia di un «nemico del popolo», ucciso dallo stesso paese che la giovane insegnante era pronta a servire insegnando equazioni e formule matematiche alle future generazioni. Da figlia di un «nemico del popolo» non aveva diritto all’istruzione e così ha falsificato i suoi documenti.

Nell’album blu con la scritta d’oro “Album” c’è una sola foto del bisnonno ucciso. È in bianco e nero, sono seduti a tavola loro tre: la bisnonna, il bisnonno e la nonna. La nonna aveva circa la mia età di quando accendevamo le lampade al cherosene. La nonna ebbe i capelli rasati per i pidocchi, la bisnonna ebbe un vestito a fiori, il bisnonno ebbe un naso aquilino e origini greche.

Alla serata danzante nella casa della gioventù del paese, quella unica e uguale a tutti gli altri paesi dell’Unione, la giovane insegnante conobbe un giovane autista, il ragazzo più bello del paese. Lui la invitò a ballare, le rubò i guanti per poterla rivedere il giorno dopo restituendoglieli. Il nonno raccontava di questi suoi corteggiamenti con un po’ di imbarazzo perché aveva lasciato congelare le mani della futura moglie per l’intera giornata del giorno dopo.

Nell’album blu con la scritta d’oro “Album” c’è una foto degli altri bisnonni, i genitori di mio nonno, seduti sulle sedie in un giardino. C’è il bisnonno che tiene in braccio il suo primo nipotino, il fratello maggiore di mio padre. Lo regge con il braccio sinistro, perché quello destro gli manca. L’ha perso in guerra, in quella che era in corso dal 1939, ma nei libri dell’Unione sovietica era iniziata solo nel 1941 con il nome sontuoso di Grande guerra patriottica che invocava la difesa di quella patria che pochi anni prima aveva ucciso il padre di mia nonna, ha lasciato senza un braccio il padre di mio nonno mandandolo al fronte senza un fucile e ha anche affamato a morte milioni di persone nell’Holodomor, la grande carestia artificiale del 1932-1933.

Di quella fame nella mia famiglia c’è un ricordo che inizia con «quando c’era la fame, mangiavamo l’erba» e dopo quella frase c’è il dolore che nessuno ha saputo raccontarmi, neanche davanti alle lampade di cherosene accese.

Oggi l’Ucraina sprofonda di nuovo nel dolore e nello stesso buio, ma in questo buio sarà difficile nascondere i crimini commessi dalla Russia, sarà difficile cancellarli dalla storia come è quasi successo con le purghe staliniane e con l’Holodomor.

Ci sono troppo sangue e troppe lacrime, troppi nomi di città giustiziate e fosse comuni che sono entrate nel profondo della nostra memoria. Il ricordo della guerra non è più quel braccio mancante del bisnonno su una foto in bianco e nero degli anni Cinquanta, la guerra non è nemmeno un ricordo, è l’oggi, è il presente, è il trauma nel futuro delle prossime generazioni che nel buio e nel freddo stanno raccontando la nostra storia.

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