Da sempre le manovre economiche di fine anno servono a uno scopo: usare i margini di deficit consentiti per spendere un po’ di più, così da incrementare la crescita rispetto a quella che si sarebbe verificata senza alcun intervento. Ci sono state solo alcune eccezioni, e solo perché l’Italia doveva dimostrare ai creditori, coloro che ci comprano i titoli di Stato, di esser capace di stringere la cinghia un po’ di più, facendo diminuire deficit e debito per rimanere solvibili. Un chiaro esempio è ciò che è accaduto nel tragico autunno 2011.
Normalmente la finanziaria è un trade off tra maggiore crescita e maggiore indebitamento. La sfida è cercare di massimizzare la prima senza esagerare il secondo. Senza scordare l’influenza fondamentale che hanno i fattori esterni, come ha dimostrato la pandemia.
Ed è interessante capire l’orientamento e le scelte di campo dei governi guardando quanto gli stessi puntino a modificare l’andamento dei principali indicatori economici (disavanzo, debito, crescita del Pil, appunto) passando dallo scenario definito tendenziale, quello che si verificherebbe senza alcuna manovra, a quello programmatico, ovvero quello risultante dagli interventi governativi.
Il governo di Giorgia Meloni in parte pare voler proseguire sulla linea di quelli precedenti prevedendo per il 2023 un peggioramento del saldo primario (la differenza tra entrate e uscite senza gli interessi) dell’1,1 per cento, non lontano da quello dell’1,2 per cento dell’anno scorso e di quello dell’1,3 per cento di due anni fa. Nello specifico andrà da un valore positivo del 0,7 per cento, quello che avremmo visto senza manovra, a uno del -0,4 per cento.
Prima del Covid i governi precedenti erano stati più prudenti, stimando scostamenti di solito inferiori al punto per l’anno successivo, tranne il governo giallo-verde, che nel 2018 per il 2019 ne aveva programmato uno analogo a quello attuale.
Fin qui nulla di sconvolgente, anzi. È degno di nota il peggioramento del rapporto debito/Pil. Secondo le previsioni governative sarà dell’1,3 per cento, il maggiore degli ultimi anni, visto che crescerà dal 143,3 per cento al 144,6 per cento. E sarebbe ancora più ampio se come riferimento ci fosse il dato tendenziale stimato dal governo Draghi agli sgoccioli, un mese prima.
In sostanza il governo Meloni lascerà crescere il debito più di quanto altri esecutivi avessero fatto in precedenza. In cambio di cosa? Questo è il punto.
Da sempre i governi hanno giustificato sforamenti dei vincoli di Maastricht o dei livelli preventivati di deficit e disavanzo con la motivazione che questi avrebbero tarpato le ali alla crescita, che senza possibilità di spendere il Pil non sarebbe potuto aumentare. Di conseguenza in ogni manovra economica, in ogni NaDef (Nota di aggiornamento al Def) mostravano come a fronte di un rilassamento della disciplina fiscale vi fosse un incremento della crescita prevista.
Per esempio a fine 2018, il governo gialloverde stimò che grazie alla maggiore spesa il Pil sarebbe aumentato l’anno dopo dell’1,5 per cento invece che del 0,9 per cento tendenziale. Il fatto che questo poi non accadde, e che la crescita fu asfittica, è un altro paio di maniche, ma il punto è che secondo i suoi desiderata il peggioramento dei conti avrebbe avuto, almeno, una ricompensa.
Il deterioramento odierno dei fondamentali di finanza pubblica è dunque almeno mirato a una maggiore crescita? Non molto. Per il 2023 l’esecutivo vede un’espansione dell’economia solo dello 0,3 per cento superiore a quella che vi sarebbe senza i non piccoli scostamenti che abbiamo visto.
Il ministero dell’Economia pensa che cresceremo dello 0,6 per cento invece che dello 0,3 per cento. Non solo, questo 0,3 per cento tendenziale (ovvero quello che si verificherebbe senza interventi pubblici) è una revisione al ribasso delle precedenti stime del governo Draghi. Rispetto a queste ultime previsioni, secondo cui il Pil sarebbe aumentato del 0,6 per cento l’anno prossimo, il miglioramento impresso dai provvedimenti del Governo è zero.
In sostanza fare più deficit e più debito non ha alcun impatto sulla crescita. Non era mai accaduto finora.
Anche nel 2019, il governo aveva preventivato un incremento della crescita limitato, del 0,2 per cento per l’anno dopo (il 2020, che come sappiamo andò poi in modo molto diverso), ma in compenso il peggioramento del saldo primario era più lieve. Viceversa, per il 2021 il governo Conte II immaginò a fine 2020 uno scostamento maggiore, ma produttivo di un incremento della crescita decisamente più alto.
In sostanza il trade off tra deterioramento delle finanze ed espansione economica per l’anno prossimo vede una delle combinazioni peggiori degli ultimi anni, forse la peggiore.
Lo stesso può dirsi di quello tra aumento del rapporto debito/Pil e crescita. Se poi prendiamo come riferimento le stime tendenziali dell’esecutivo precedente all’attuale spicca come non ci sia mai stata negli ultimi anni una previsione di miglioramento della variazione del Pil così bassa a fronte di un incremento del debito così alto.
Quel debito di cui non si parla quasi più, e che forse anche per questo qualcuno nelle stanze del potere pensa non sia più importante fare scendere, nonostante sia, a quota 144,6 per cento, circa 40 punti più alto di 15 anni fa, quando paradossalmente si era più attenti a questi parametri.
L’esigenza di far risalire l’economia dall’abisso della crisi pandemica ha messo in secondo piano il rigore dei conti. Una decisione comprensibile, in fondo l’aumento del Pil nel 2021 e nel 2022 ha più che compensato gli scostamenti generosi decisi.
Nel 2023, però, a causa dell’inflazione galoppante e della criminale invasione russa dell’Ucraina l’Italia tornerà ai vecchi ritmi, a una crescita asfittica, dello zero virgola (se non a una recessione), come era stato a lungo prima del Covid. Ci arriverà, però, con un debito e un deficit più alti, con una previsione di peggioramento dei conti pubblici più ampia di quelle che venivano fatte prima.
L’impressione è che il governo Meloni voglia continuare a essere generoso in termini di spesa come quello Draghi, anche in presenza di condizioni macroeconomiche ben diverse. Condizioni che, intendiamoci, esulano dalla sua responsabilità, cominciare a governare con questi chiari di luna è stata pura sfortuna, non una colpa, per il nuovo esecutivo.
Tuttavia sarebbe desiderabile la consapevolezza che intorno all’Italia e ai suoi conti pubblici tornerà l’attenzione dei creditori, i quali non sono perfidi ricattatori, biechi e aridi burocrati, ma semplici investitori razionali, cui mostrare che razionali siamo anche noi.
Se proprio vogliamo spendere più di quanto sarebbe desiderabile per rispettare una rigida disciplina dei conti, allora che sia una spesa che provochi un aumento della produttività e della crescita.
I numeri mostrano che non è quello che avviene, e la legge di Bilancio che sta per essere votata lo dimostra ampiamente.
Oltre alla parte che cerca di tamponare i danni della crisi energetica, obbligatoria e in gran parte mutuata dal governo Draghi, siamo davanti a scelte politiche, forse sarebbe meglio dire ideologiche, che accontentano l’elettorato di riferimento senza creare le condizioni per una maggiore espansione dell’economia.
L’unica eccezione è una limitata decontribuzione per i giovani. Non genera un aumento della crescita l’estensione della flat tax per le partite Iva fino a 85mila euro, né l’aumento della soglia dei contanti e lo stralcio di alcune caselle esattoriali, tanto meno quota 103 e la modifica di Opzione Donna.
Il governo sembra esserne consapevole. L’intenzione dichiarata è di mantenere le promesse, quelle fatte a chi vota i partiti della maggioranza, tra cui non vi sono se non pochi giovani in attesa di entrare nel mondo del lavoro, né molti poveri ed esclusi, insomma coloro che da una crescita economica avrebbero più da beneficiare.